Teatro

REPLICA DI ELISIR D'AMORE A BASSANO

REPLICA DI ELISIR D'AMORE A BASSANO

Quanto conta un libretto nell’esito di un’opera? Bella domanda, davvero: lavorando sopra un libretto alquanto mediocre e convenzionale di Temistocle Solera, Verdi conseguì il suo primo, franco successo con il “Nabucodonosor”, segno che la sua visione drammaturgica era ben più potente della convenzionale verseggiatura del ferrarese, riscattata con un ispirazione franca ed originale, ed approntando un tessuto musicale febbrile e rovente. Esattamente dieci anni prima, e dovendo scrivere sempre per le scene milanesi – non per la Scala, ma l’altrettanto attivo Teatro della Cannobiana -  Donizetti aveva invece avuto tra le mani un elegantissimo libretto comico, steso dal più raffinato e famoso dei librettisti dell’epoca, Felice Romani. «Un testo chiaro e garbato, con personaggi nitidamente disegnati e, soprattutto, una vena profonda di sincero sentimento», come ha commentato William Ashbrook, il suo maggiore studioso.
A conti fatti, dalla collaborazione tra il poeta genovese ed il compositore bergamasco sortì infatti quel prodigio immortale che è “L’elisir d’amore”, il quale oltretutto segna il superamento definitivo della farsa alla napoletana – genere d’intreccio comico di cui “Il barbiere di Siviglia” rossiniano costituiva insieme la summa e l’apice – e contemporaneamente l’avvento della nuova commedia borghese: genere dove i sentimenti dei protagonisti volgono un ruolo predominante, e lo scioglimento dei nodi avviene non per impreviste agnizioni, interventi dall’esterno o per inattesi casi, bensì per un mutare progressivo degli affetti e degli animi. Ne “L’elisir d’amore”, infatti, la positiva risoluzione diviene possibile perché Adina – capricciosa e volubile per sua stessa ammissione – alla fine riconosce il profondo valore della sincerità e della costanza di Nemorino, e lo premia accettandolo come sposo. Quanto riguarda la musica, alla perfetta caratterizzazione dei ruoli principali operata dal Romani, in un momento di felicissimo estro creativo Donizetti trova per ognuno una corrispondente raffigurazione melodica, perfettamente calzante per ogni carattere: così nel suo canto la ragazza mescola civetteria e sensibilità, Nemorino è sempre teneramente naïf, Belcore appare un prototipo di retorica e banale maschilità, Dulcamara è un amabile campione di cialtrona verbosità, un ‘misirizzi’ sempre in piedi. Per inciso, quello che pare più incredibile è che, dovendo sopperire senza preavviso ad un mancato rispetto contrattuale altrui, i due autori ebbero a disposizione solo due settimane, la prima delle quali se ne andò per adattare il testo originale di Eugène Scribe.
Opera vaporosa e soave, “L’elisir d’amore”, e come deve essere trattata: meglio non sovraccaricarla di fastelli e addobbi inutili, come talvolta ci è capitato di vedere. In questa edizione estiva ‘en plain air’ di Bassano del Grappa, Giulio Ciabatti ha fatto di povertà virtù, nel senso che il palcoscenico montato nel cortile del Castello degli Ezzelini, che con il Duomo sovrasta la città veneta, non permetteva che limitati trastulli scenici. Quindi scarna attrezzeria (qualche sedia, qualche tavolo) davanti a grandi cenci candidi stesi ad asciugare, e massima attenzione alla recitazione, singola e collettiva: perché anche il coro doveva svolgere per bene la sua funzione anche scenica. Ne è scaturito uno spettacolo spedito e nel complesso godibile, imperniato sulla persuasione degli interpreti, ed ambientato negli abiti in tempi a noi prossimi (diciamo anni 40-50 del secolo passato), in cui a due agili mimi tuttofare era permesso di muoversi liberamente; e con l’unica magagna forse di aver addobbato in maniera ridicola e bizzarra l’armata di Belcore. In verità, un’altra pecca sarebbe l’aver collocato l’orchestra addirittura dietro il palcoscenico – anzi, dietro i bianchi lenzuoli, dai quali si intravedeva la figura del direttore - in posizione fonica assolutamente sconveniente; ma era l’unica possibile, mi è stato detto, in un contesto destinato ad ospitare ogni genere di intrattenimento, considerato che il folto cartellone del festival Opera Estate prevede sera dopo sera di tutto, dalla prosa alla danza, dal jazz alla musica classica.

Il cast vedeva per tre quarti giovani ad inizio carriera – incontrare e scoprire voci nuove fa sempre piacere - ad iniziare dal soprano fiorentino Lavinia Bini che ha recentemente vinto il Concorso As.Li.Co. 2013 proprio per il ruolo di Adina, che ricoprirà nella prossima produzione autunnale di quell’ente; e da come ha interpretato qui a Bassano questa delicata figura – cioè con tanta freschezza, proprietà vocale, precisione belcantistica – mi sembra un premio ben meritato. Deboluccio invece nell’insieme il Nemorino del tenore Fabrizio Paesano, poco caratterizzato ed incerto a tratti anche nell’intonazione. Il baritono Mattia Olivieri l’avevamo sentito in “Elisir” un paio d’anni fa in una produzione jesina, ma allora vestiva i panni di Dulcamara; mutato il ruolo, non cambia il risultato: spessore ed eloquenza vocale considerevoli, grande autorevolezza e bella disinvoltura in scena, un certo fascino magnetico che non guasta in un baldanzoso sergente. Accanto a loro, un veterano di consumata abilità quale Paolo Rumetz si è assunto il compito di disegnare un dispensatore di false pozioni cialtrone e simpatico, ma sopra tutto musicalmente ineccepibile. Silvia Celadin era Giannetta; non sempre adamantino il coro Città di Padova, discreto nella sezione femminile ma decisamente greve in quella virile.
L’Orchestra di Padova e del Veneto – compagine di salda professionalità – era capitanata da Giampolo Bisanti; la sua è stata una direzione seducente e dal bel respiro, corretta nei tempi e nella dinamica, ma sacrificata assai – come già detto – da una collocazione decisamente infelice che avviliva il corretto dialogo con il palcoscenico.
L’opera è stata coprodotta con il Comune di Padova; in quella città era infatti già apparsa qualche giorno prima, con gli stessi interpreti, in una piazza del centro storico.