E’ curioso constatare come dopo la presentazione del suo “Faust” – un lavoro che per tutti incarna la quintessenza stessa del grand-opéra francese - Gounod fosse stato tacciato di “germanismo” da parte di qualche critico forse prevenuto. Ed è ancor più curioso se pensiamo che al di poco più anziano Marschner capitò qualcosa di analogo, seppure in maniera diametralmente opposta: a lui, che si assunse in patria il compito di traghettare l’opera dal primo romanticismo di Weber al complesso universo teatrale di Wagner (allo stesso modo del musicista parigino, che venendo da Halévy e Meyerbeer spianò la strada a Saint-Saëns e Bizet), vennero infatti imputati sgraditi “francesismi” in quel caposaldo del teatro tedesco che è “Der Vampyr”. Il fatto è che in partiture tanto complesse e ricche di sfacettature come quella del “Faust”, cinque monumentali atti frutto di una lunga e continua rielaborazione (con aggiunte e tagli, interpolazioni, sostituzioni e spostamenti di scene) ognuno può intravedere e ravvisare qualcosa di diverso, qualcosa anche di nuovo e mai scoperto prima: come stanno a dimostrare le innumerevoli soluzioni registiche che si sono alternate sulle tavole dei teatri di mezzo mondo, specie da quando le geniali intuizioni di Luca Ronconi, Jean-Louis Barrault e Jorge Lavelli, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, hanno fatto piazza pulita dei tediosi retaggi e dei vezzi scenici del passato.
Dopo tali illustri cimenti, portare in scena qualcosa di nuovo, trovandosi alle prese con questo lavoro non è dunque agevole, né scontato; ma ci è riuscita la triade Krešimir Doleni, Dinka Jeričevi, Ana Saviić Gecan (rispettivamente regista, scenografa, costumista) con il “Faust” che abbiamo visto al Teatro Nazionale I.Zajca di Fiume, che sulla realizzazione di questa nuova produzione ha puntato con molta ambizione. Non a caso –almeno per le prime recite – è stato allineato un ragguardevole manipolo di cantanti che hanno impresso pieno rilievo ai loro ruoli (ne parliamo poi) sia vocalmente sia come attori, dopo essere stati assai impegnati dalle prove richieste dalla complessità dello spettacolo.
Tantissime le idee messe in campo, e tutte direi sfruttate con genialità. L’impianto scenico di base prevede al centro una sfera metallica rotante, e dietro un susseguirsi di videoproiezioni dal carattere ipnotico: partendo dal vortice caleidoscopico che accompagna il prologo strumentale, si vede ora un uomo impegnato in una corsa inesausta, ora una croce vibrante di luce, ora un pianeta di fuoco, ora altre immagini che sospendono oppure spingono in avanti l’azione. Di tanto in tanto, ecco apparire sullo sfondo il volto distorto e minaccioso di Mefistofele, ripreso in diretta mentre canta dietro le quinte: ci viene mostrato così non con le vesti eleganti di altri momenti, ma per quello che è veramente, cioè un’entità demoniaca e sovrannaturale che scaglia su Margherita la tremenda maledizione «A toi l’enfer!». Anche all’inizio un Faust vecchio e sofferente, paralizzato su una carrozzella, ci viene raffigurato da un mimo muto mentre la sua voce si eleva dietro di lui, da dentro la sfera dove un’ombra scura piano piano si rivela come la sua anima dolente, stanca d’essere imprigionata in un corpo marcescente. Siebel si presenta in scena con una stranissima tuta argentea dal disegno spaziale, che volutamente stride con la voluta naturalezza degli altri costumi: se ne comprende il motivo solo all’ultimo, quando dall’alto di una scalinata, con dietro due grandi ali, scende ad abbracciare Margherita nella sua prigione – sempre la solita sfera - palesandosi come un angelo inviato dal Cielo. In definitiva, tutto lo spettacolo pensato da Krešimir Doleni e dalle sue due brave collaboratrici procede con intelligenza e raffinatezza, riuscendo in ogni momento ad coinvolgere lo spettatore con la sua vivida teatralità.
Altro punto di forza di questo “Faust” fiumano era la intensa direzione di Nada Matošević Oreškovi, basata su una salda logica narrativa e pervasa di squisita musicalità. Calibrata nei volumi e nelle dinamiche, incisiva negli attacchi, mescolando in giuste proporzioni estatici languori e slanci energici, ricca di pathos senza però mai eccedere in tinte troppo sgargianti, e senza nulla concedere alla potenziale enfaticità di certe scene “ad effetto” come quelle della kermesse e della chiesa; e poi raffinata nella ricerca timbrica, sempre saggiamente equilibrata, sempre in grado di valorizzare tutte le ‘nuances’ della partitura, anche nelle due pagine strumentali. Giusta dose di merito, in questo, va riconosciuto anche all’apporto dell’orchestra del NHK I.Zajca, valente e precisa in ogni sua sezione.
Parliamo ora dei cantanti sentiti alla ‘prima’ di fine marzo. Nei panni di Faust c’era Stefan Pop, giovane tenore romeno che da noi si è sentito nel 2009 come Alfredo all’Opera di Roma, con la regia di Zeffirelli, e poi come Duca di Mantova al Carlo Felice di Genova ed al San Carlo di Napoli: ha voce luminosa e limpida, con acuti squillanti e sicuri, e malgrado una stazza un po’ importante mostra disinvolta presenza in scena, e una spontanea comunicativa; insomma, come Faust riesce ad essere abbastanza convincente. Abbastanza, ma non del tutto, perché manca la destrezza nel declamato proprio del repertorio francese, il che sminuisce la statura complessiva del suo personaggio anche se, nei momenti di slancio e di incanto lirico (ottime sia «A moi les plaisirs» che «Salut, demeure chaste et pure»), riesce ad operare con la necessaria disinvoltura. Valentina Fija
ko, giovane soprano croata – è nata nel 1977 nella bella Varaždin, ad un passo dalla puszta ungherese – è in carriera da soli tre anni, ma appare dotata di una voce già solida e matura. Ferma la linea del canto, seducente il timbro ed il colore della voce, la sua Margherita era aliena da eccessi e svenevolezze, trovando il giusto equilibrio tra profondità di sentimenti e spontanea freschezza, giovanile e innocente, ma consapevole delle cose d’amore. Deliziosamente ‘coquette’ nella grande scena del Terzo Atto (quella che va da «Je voudra bien savoir» alla ballata del re di Thulè, sino nell’aria dei gioielli «Ah, je ris de me voir», dove ogni funambolica coloratura cadeva perfettattamente a piombo), la sua figura andava man mano maturando, dolentemente consapevole nella scena della chiesa; e nel finale il suo canto intrecciandosi a quello di Faust da «C’est la voix du bien-aimé...C’est toi!» in poi sapeva conseguire sia una pregevole consistenza musicale, sia una straordinaria espressività scenica.
Mefistofele era nelle mani di un basso-baritono che proprio a Fiume ha visto i natali, e cioè Giorgio Surian, interprete in solido equilibrio tra scuola slava e scuola italiana, la cui maestosa ampiezza vocale si accompagna ad un canto compatto e brillante, ad una linea omogenea in ogni registro, ad un fraseggio aggraziato. Sulfureo e maligno quanto basta, senza mai eccedere; e senza mai dimenticare di esprimere l’eleganza ‘vilain’ di un personaggio dalle tante sfacettature: insinuante nel primo duetto con Faust, beffardo e caustico in «Et Satan conduit le bal», sfrontato ed ironico nell’offensiva serenata «Vous qui faites l’endormie», protervo e perfido nel tormentare Margherita nella sua perdizione. Il baritono zagrebese Siniša Hapa ha tratteggiato un Valentin di discreto peso vocale, ma non del tutto suadente nell’accento melodico di «O sainte medaille», e un po’ smorto nello slancio drammatico di «Je meurs par elle…Ecoute moi bien, Marguerite»; Siebel era affidato ad Anamarjia Knego, che ne ha fatto un personaggio concreto e credibile, non troppo imbambolato nel cantare «Faites-lui mes aveux»; il bravo basso-baritono Bojan Šober ha consegnato un eccellente Wagner; Iva Mrvoš ha ben disegnato la sua Marta.
Generosa la prestazione del Coro, preparato da Igor Vlaini
, chiamato a grandi sforzi in un’operona come questa: adeguato in ogni pagina salvo qualche inevitabile asprezza nella francesissima ‘allure’ di «Ainsi que la brise légère»; le coreografie erano state realizzate da Šnježana Abramovi Milkovi; le video proiezioni da Deni Šesni e Igor Crnkovi. Qualche taglio più o meno di tradizione, oppure di comodo – compreso quello dei balletti – non ha troppo nociuto allo spettacolo portato in tal modo a dimensioni ragionevoli. Grande successo di pubblico, manifestato in lunghi applausi tributati a tutti gli artisti.
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