Scriveva Rubens Tedeschi nel suo libro 'Addio, fiorito asil', che «la riuscita dei Pagliacci, più che nelle mediocri qualità letterarie e musicali, sta nell'esatta intuizione che, per rifare Cavalleria, come pretende il pubblico, bisogna "superarla". La Cavalleria, nella sua istintiva violenza, nell'esatto equilibrio tra realtà e oleografia, non si può ripetere. Lo stesso Mascagni non vi riuscirà più. Occorre dunque riprendere la medesima materia in un contesto letterariamente e musicalmente "raffinato", secondo le regole dell'opera colta». Ed annotava di seguito che se lo schema di base adottato rimane invariato rispetto al capolavoro di Mascagni (lui ama lei, ma lei ama un altro, finché ci scappa il morto), il "superamento" messo in atto da Leoncavallo sta tutto o quasi nel doppio piano di narrazione che mescola abilmente illusione e realtà, smussando la crudezza dei fatti narrati tra enfasi declamatoria e citazioni colte. La recita cioè d'una commedia (la tresca di Arlecchino e Colombina alle spalle di Pagliaccio) sul palco piantato nella piazza di un villaggio, che replica nella finzione della farsa il triangolo amoroso (questo però del tutto concreto) tra Canio, la moglie Nedda, l'amante di lei Silvio. In realtà, pur concordando in pieno su tali riflessioni, ci pare che suo il giudizio di Tedeschi sui pregi de "I pagliacci" sia stato sin troppo negativo. Se veramente fosse un'opera dozzinale, come suggerisce, non si spiegherebbe l'ininterrotto gradimento del pubblico verso uno dei capolavori del nostro Verismo, né l'interesse della critica.
Poter mettere in scena "I pagliacci" è un invito a nozze per ogni regista, per la ricchezza di spunti a disposizione; ma soprattutto, proprio per quel duplice piano di lettura che scivola in continuazione tra realtà e finzione. Ci si sono cimentati in tanti, ora è stata la volta di Plamen Kartalov al Teatro Zajica di Fiume, dovendo rimpiazzare una "Anna Bolena" rinviata a data da stabilire. Il regista bulgaro ha voluto che Ivo Knezović gli consegnasse una scenografia dal taglio tradizionale e ricca di particolari - la piazza d'un paese come tanti, un modesto palcoscenico chiuso da una tenda bianca. Però l'ha voluta rotante, in modo da fare coincidere il nostro punto vista ora con quello degli spettatori di Montalto, ora portandoci dietro le quinte a toccare con mano le miserie di quegli umili guitti. Intuizione ingegnosa e molto efficace, rafforzata sulla scena da giusti tocchi di colore e dalla recitazione intensa e vigorosa suggerita da Kartalov ai cantanti, e da un buon movimento di masse. Ne è scaturito uno spettacolo serrato e poderoso, senza sbavature né esagerazioni bercianti, che ha seguito e servito molto bene la turbinosa partitura di Leoncavallo. Sul podio un musicista ancora giovanile ma già di saldo mestiere - il croato Igor Vlajnić - pronto a dirigere con forte vigore e la giusta dose di enfasi (di teatro verista pur sempre si tratta) senza però eccedere in violenza declamatoria. L'intensità tragica sta già tutta nella musica, non serve altro che farla emergere con la giusta assenatezza: eseguirla cioè con partecipazione ed rispetto della partitura senza forzarne il senso, come Vlajnić ha mostrato di saper fare con intelligenza.
Il cast radunava intelligenze diverse, con esiti differenti. Armando Puklavec s'è mostrato eccellente nel 'Prologo', esibendo calore e bella dizione, e fraseggio vario, morbido ed garbato; nel ruolo di Tonio, era perfidamente insinuante nel duetto con Nedda, mantenendo il parossismo erotico nei limiti del buon gusto, e senza cadere in gigionerie ha proseguito per tutto il resto. Canio era Janez Lotrič, che possiede doti tenorili cospicue - facile squillo e corposità, buona estensione, bel timbro - disperse al vento per approssimazione interpretativa e violenza declamatoria. Olga Kamimska non mi pareva ben calata nel personaggio di Nedda, dato che nella 'Ballata' la vedevo frigida e poco convinta. Assai meglio le riusciva il passionale duetto d'amore con Silvio: il quale era il bravo Robert Kolar, che pur nella brevità degli interventi ha dimostrato classe vocale e convincente recitazione. Discreto il Beppe di Sergej Kiselev. Positivo il lavoro del Coro, molto affiatata orchestra. Facendo sfoggio di grande fantasia, i costumi di Leo Kulaš spostavano la vicenda agli anni 50-60 del secolo scorso. Pubblico numeroso e molto soddisfatto dello spettacolo.
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