Una narrazione a enigma che indulge troppo su se stessa rimanendo irrisolta.
L'idea drammaturgica da cui parte Ammazzali della salernitana Compagnia Scena Teatro porta con sé un'eco de Le Serve di Genet: tre fratelli impersonano gli odiati genitori secondo un preciso cerimoniale-gioco ripetuto fino alla noia, durante il quale ogni tentativo di deroga di uno dei tre fratelli viene riportato nei ranghi dagli altri due.
Durante questa performance impersonificatrice vengono vagliati scenari (ipotetici o reali?) nei quali i genitori trovano la morte, i tre fratelli vengono interrogati dalla polizia, e sono vessati dalla madre e dal padre che, a turno, interpretano loro stessi indossando ora una giacca ora un velo da sposa.
Suggestivo e curato sia dal versante sonoro (con una partitura musicale che diventa quasi un quarto personaggio) sia da quello visivo (dai lumini votivi che coronano il proscenio) con una particolare cura per le luci (l'impiego di torce digitali usate in una scena come unica fonte luminosa) e il buio, manca allo spettacolo una solidità drammaturgica che dal suo impianto narrativo tragga occasione di analisi e denuncia dei rapporti tra persone adulte e giovani, tra genitori e prole e, naturalmente, tra uomo e donna.
Ammazzali si limita ad accennare a qualche timido luogo comune sessista (la madre povera che sogna un vestito di taffetà) paternalista (il padre che si lamenta del figlio che non trova lavoro) e vittimista (il padre che si lamenta di essere stato incastrato dalla moglie) senza nemmeno scalfire il portato ideologico patriarcale delle relazioni interpersonali messe in scena, rimanendo a metà del guado di una narrazione a enigma che indulge troppo su se stessa rimanendo irrisolta.