Uno spettacolo notevole, con un interprete che sa tenere banco con la sua sola presenza umana.
Mentre il pubblico si assiepa sui gradini del giardino di Castel Sant'Angelo un boia con tanto di minaccioso cappuccio nero si aggira tra la platea e indica senza proferire parola chi può salire sul palco ad occupare le dieci sedie disposte sui tre lati che vi campeggiano. Così mentre una parte del pubblico si fa scena e personaggio per quello che rimane sui gradini, il boia, giubotto di pelle, jeans strappati, matita nera agli occhi, allestisce la scena distribuendo un cappuccio a chi è salito e salita sul palco, chiedendo loro, per tutta la performance, di sostenerlo, ora leggendo una frase scritta su un taccuino rosso, ora reggendo il microfono che usa con precisione durante tutto il monologo, ora indossando il cappuccio che gli è stato distribuito.
Il testo è una riduzione elegante e rispettosa del romanzo di Victor Hugo L'ultimo giorno di un condannato a morte che Davide Sacco asciuga nella sua verbosità confezionando un monologo perfetto per la verve performativa di Orazio Cerino che restituisce con enorme credibilità la ruvidezza e la vulnerabilità di un uomo condannato alla pena capitale.
Sorprende piacevolmente come il testo di Hugo, scritto nel 1829, sia ancora attualissimo (espunti i riferimenti a un quotidiano ormai distante) e quanto la sensibilità psicologica con la quale lo scrittore francese restituisce il vissuto emotivo di un uomo che sa di essere ucciso da lì a poche ore sia efficace e contemporanea a distanza di tanto tempo. La struttura di ferro a forma di cubo che troneggia sul palco, ai bordi della quale prende posto il pubblico invitato dal boia, la sedia del condannato a morte, di legno, bianca, con delle chiazze di colore rosso, le due serie di punti luminosi, bianchi e rossi, che contornano il metallo della scena a forma di cubo (che fungerà anche da lama della ghigliottina) si fanno correlativo scenografico della primordiale brutalità della morte usata come strumento punitivo e non rieducativo nel sistema carcerario.
L'angoscia per la morte imminente è restituita da Cerino con grande generosità umana sostenuta da una perizia non solo recitativa: l'attore coordina il pubblico di cui si è contornato, manovra il microfono che fa sempre parte della scena non solo quando lo usa ma anche quando lo fa pendere prendendolo per il cavo o lo poggia a terra sul taccuino rosso o quando lo usa per amplificare il suono di un registratore a microcassette mentre incarna nel suo monologo i vari personaggi (l'avvocato, la guardia, un curato) che il condannato incontra.
Condannato a morte. The punk version attesta una precisa idea di teatro che è mancata a molti altri spettacoli visti quest'anno al Fringe, per i quali il teatro è un mezzo per raccontare una storia "che si dice da sé". Cerino e Sacco ci raccontano invece una storia che solamente il teatro, un evento cioè con una precisa scenografia e una regia curata nei dettagli, un evento che accade qui e ora e che in quanto tale coinvolge il pubblico, può raccontare una storia con la dovuta efficacia, senza diventare mezzo per il protagonismo del regista o dell'attore, entrambi al servizio dello spettacolo e non del proprio ego.
Dispiace solo un certo patetismo del finale (l'accenno alla figlioletta del condannato della quale sentiamo la voce chiamare papà) o certe connotazioni regionalistiche (la parlata napulitana della guardia che chiede al condannato di comparirgli in sogno, una volta morto, per dargli i numeri del lotto) che sporcano con un inutile effetto oleografico un allestimento quasi perfetto, dal grande impatto emotivo che mostra icasticamente come la pena di morte non può continuare ad essere una opzione.