Teatro

A Salisburgo c'è il Faust di Gounod

A Salisburgo c'è il Faust di Gounod

Il grand-opéra di Gounod è il titolo di punta di questa edizione del Festival: la regia si basa sulla solitudine del protagonista che parte dal nulla e va verso il nulla con la complicità di un Mefistofele efficacissimo.

Salzburg, Grosses Festspielhaus: “Faust” di Charles Gounod

DAL NULLA VERSO IL NULLA

La produzione di punta di questo Festival 2016 è il Faust di Gounod con regia, scene e costumi di Reinhard von der Thannen, con cui collaborano la moglie Birgit alla drammaturgia, Kathrin Hauer alla messa in scena e Alexander Fahima alla regia.

Reinhard von der Thannen parte dall'idea che il protagonista sia prigioniero di una solitudine: il “nulla” (scritta che compare in francese all'inizio e alla fine, “rien”) che lo attanaglia lo porta a una rappresentazione in cui si legano un dominatore e uno schiavo inseriti dentro un sistema di specchi distorti in cui tutto si mescola e si confonde come per un gioco privo di morale; a ciò fa da sfondo una folla che non ha alcuna pietà per la vittima, anzi il contrario. Così, alla fine, si scopre che la causa del viaggio è stato proprio quel nulla e al nulla sono e siamo arrivati. Il protagonista Faust, dal latino “felice” oppure con assonanza al tedesco “pugno”, è arrivato al “punto zero” della sua esistenza quando l'opera ha inizio e lo mostra circondato da mucchi di pagine accatastate e da corvi meccanici simbolo di morte; poi il camerino inizia a sprofondare e arriva Méphistophélès a salvarlo, dandogli la mano e suggellando il patto: Faust torna giovane e la rappresentazione ha inizio con vari momenti quasi da avanspettacolo ma, come detto, essa porterà al nulla, la scritta “rien” che compare all'inizio e torna alla fine. I due protagonisti sono spesso vestiti alla stessa maniera salvo poi, tolti i cappottoni o le vestaglie, svelare le dovute differenze e lasciando il dubbio sulla loro complementarietà o sull'essere invece uno lo specchio dell'altro.

La scenografia è semplice e lineare e ricrea un luogo senza tempo che rimanda comunque ad ambienti teatrali e cinematografici al tempo stesso: i toni bianchi dominanti caratterizzano un fondale caleidoscopico come un obiettivo di telecamera (l'apparire dei protagonisti lì dentro ci ha ricordato le immagini iconiche di James Bond). I costumi, come le scene, sono senza tempo ma si situano in un passato non lontano che guarda all'Ottocento nelle linee essenziali. Meno comprensibili alcuni rimandi alla clownerie e altri simboli di cui lo spettacolo si carica man mano che gli atti procedono, come i modellini di casa e campanile. Bella l'idea del prato sulle sedute delle sedie, efficace lo scheletrone incombente nel quarto atto. Adeguate le luci di Franck Evin.

Alejo Pérez conduce i Wiener Philharmoniker con grande padronanza, sottolineando i momenti drammatici, come l'incipit del quarto atto che diventa cupissimo, ma anche dando respiro ai momenti di maggiore leggerezza, che diventano quasi da cabaret: il contrasto è assai calzante. Il colore orchestrale deriva da armonie complesse e da impasti strumentali molto elaborati e rende al meglio la struttura emotiva del dramma, assicurando quella tensione narrativa e quella coesione dell'insieme che invece sfugge al regista: in questo modo il direttore mostra tutti i colori della partitura, trasmettendo al pubblico l'emozionalità delle grandiose pagine di Berlioz.

Piotr Beczala, aspetto aristocratico e occhi di ghiaccio, incarna bene i tormenti e i desideri di questo Faust; il tenore ha voce curata in ogni registro, qualche assottigliamento in acuto non ha in alcun modo influito sulla resa finale di cui abbiamo particolarmente apprezzato il sottolineare tutti i colori della tessitura. Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha notevole presenza scenica (azzeccati i capelli rasati e la barba corta) e voce di grande suggestione: il basso ha voce dal bellissimo colore, luminoso e screziato, sicura in ogni momento, fulgente e salda nelle salite all'acuto, corposo e vellutato nelle discese nel grave, ed è generoso nell'uso come ben si addice al suo “diavolo”, che riesce a emozionare suonando spettrale e terribile anche nei momenti di maggiore leggerezza. Conquista il pubblico la Marguerite di Maria Agresta dalla voce solida ed espressiva: il registro centrale è sontuoso, il registro acuto saldo e sostenuto alla perfezione, il registro grave morbidissimo, tutti contribuendo al risultato finale: il personaggio è idealizzato nella scelta registica ma il soprano è attento a sottolineare ogni parola e inflessione con un canto interiore scevro dalla ricerca di facili effetti ma proprio per questo ancora più commovente. Seppure un poco stentoreo, valida prova per il Valentin di Alexey Markov: la sua uccisione è uno dei momenti più drammatici. Gioca sul travestitismo il Siébel di Tara Erraught; molto scenografica la Marthe agée di Marie-Ange Todorovitch; adeguato il Wagner di Paolo Rumetz. Ottimo il Philharmonia Chor Wien, sia vocalmente che attorialmente, preparato da Walter Zeh. Alla riuscita dello spettacolo contribuiscono ballerini e ballerine e i due mimi che accompagnano  Méphistophélès muovendo in scena il suo baule – camerino, Augustin Alriq e Thomas Pferten.

Sala esaurita, pubblico attento e senza defezioni durante gli intervalli, applausi limitati nel corso della recita ma prolungati e convinti nel finale a parte qualche fischio allo spegnersi delle luci, forse non in piena condivisione della parte scenotecnica.

Visto a Salzburg, Grosses Festspielhaus, il 20 agosto 2016