Teatro

Salisburgo, Cenerentola

Salisburgo, Cenerentola

Salzburg, Haus für Mozart, “La Cenerentola” di  Gioachino Rossini

La tavola calda cangia in lounge e piovono secchi

La Cenerentola di Damiano Michieletto aveva debuttato con successo a Salisburgo a Pentecoste nell’ambito di un programma tutto rossiniano ideato da Cecilia Bartoli (nella duplice veste di protagonista e direttrice artistica) e ora torna al Festspiel riscuotendo unanimi consensi. La produzione è piena di inventiva e soddisfa diversi livelli di lettura: favola surreale dal finale un po’ bitter e dramma giocoso dai ritmi comici perfetti; inoltre i personaggi, lontani dall’essere dei tipi, sono approfonditi e il susseguirsi di gag e trovate non è arbitrario ma trova piena legittimità in testo e musica.

Michieletto ambienta la vicenda ai giorni nostri in una tavola calda dove Cenerentola è una sguattera iperattiva dai guanti gialli e col secchio in mano al servizio di Don Magnifico, padre-padrone che dorme abbarbicato sulla cassa mentre le sorellastre gli sfilano i soldi di nascosto. Alidoro scende sulla terra da nuvole video con la valigia, un incrocio fra Mary Poppins e Cupido, che si trasforma all’occorrenza in mendicante, postino, addetto alla security per tessere i destini altrui lanciando piume  piuttosto che dardi di plastica fluorescenti che non risparmiano nemmeno il direttore.
Di grande virtuosismo l’impianto scenografico cangiante ideato da Paolo Fantin che, sotto la bacchetta di Alidoro, si trasforma a vista mantenendo la struttura iniziale: la squallida tavola calda illuminata da fredde luci al neon con i tavolini di formica e il mezzanino coi locali di servizio si solleva per scoprire la sua variante di lusso, ovvero il  bar lounge principesco dal bancone in vetro retroilluminato, luci d’atmosfera, maxi divani, dehors e acquario. Una parte di pavimento si abbassa inghiottendo Cenerentola stremata e assopita e la riporta in superficie ancora addormentata distesa sul divano in un elegante abito da sera rosso. Espediente scenico che risolve con genialità l’improbabile carrozza e che fa intuire come sia tutto sogno.
Il tocco surreale lo ritroviamo nel finale primo quando un pesce gonfiabile colorato come Nemo si libra nell’aria fino alla platea e i personaggi appaiono proiettati sul sipario fra pesci tropicali imprigionati dentro a  bolle di sapone che si muovono vorticose per suggerire il loro sconcerto.
Di alcune cose si poteva fare a meno, come l’eccesso di figuranti o le invitate del Principe che ondeggiano a passo di rock, ma il coro maschile vestito da vecchie zitelle in cerca di marito  è irresistibile e Alidoro che lega insieme i personaggi con un nastro di cellophan in un “nodo avviluppato” è perfetto.
Niente zucchero nel finale, e ci piace proprio questa Cenerentola che nel momento del perdono offre bomboniere che contengono guanti da cucina e dall’alto piovono secchi. Angelina trionfa in un’apoteosi di vocalizzi e  bolle di sapone mentre i familiari pagano il fio spazzando la scena a ritmo di rondò.
La produzione si è avvalsa di un team creativo eccellente e ben integrato, oltre al già citato Paolo Fantin ricordiamo i riusciti costumi di Agostino Cavalca che spaziano dal trash contemporaneo all’eleganza sartoriale, i video design di Rocafilm  e le luci di Alessandro Carletti, ma lo spettacolo funziona soprattutto in virtù di un ensemble affiatato e divertito (la ripresa estiva ne ha ulteriormente affinato i meccanismi teatrali) che ha esaltato il ritmo del dramma giocoso rossiniano.

Se Cecilia Bartoli l’anno scorso non ci aveva convinto nella Norma salisburghese nonostante l’innegabile bravura, non possiamo ora che applaudirla senza riserve. Sono passati vent’anni dal debutto in un ruolo divenuto per lei d’elezione ma non si avverte nessuna stanchezza, anzi l’energia scenica e vocale che emana è travolgente. Sarà forse più Cecilia che Angelina, ma quante sfumature di carattere (peraltro sempre pertinenti con la situazione musicale) rivela questa Cenerentola  di volta in volta sognante, amorosa, umiliata, ma anche arrabbiata e vendicativa. Non ci si può che inchinare di fronte all’assoluto controllo del medium vocale, al modo tutto suo di snocciolare le agilità e di affrontare in modo spettacolare gli acuti con una voce così scura. E non si avverte alcun artificio in quanto la vocalizzazione, se pur vertiginosa, è sempre intonata e inserita nella situazione.
Se il successo della Bartoli era prevedibile, la rivelazione è stata il Don Ramiro esuberante di Javier Camarena: l’avevamo apprezzato qualche anno fa a Zurigo nel Rossini serio ma ora la voce è decisamente maturata, divenuta più piena e corposa sia nel registro centrale che negli acuti, inoltre, l’articolazione eccellente e la linea curata lasciano presagire una bella carriera. Convince il Dandini di Nicola Alaimo per una comunicativa istintiva che lo rende irresistibile dal suo primo apparire; da buon servitore l’intesa con il Principe è palpabile e anche sul fronte vocale dimostra eccellente disinvoltura nella gestione dei passaggi e del fiato. L’Alidoro/Deus ex machina  di Ugo Gagliardo, vestito di bianco e dai capelli ossigenati, funziona soprattutto per la presenza scenica forte e discreta al tempo stesso; la voce è musicale e di bel timbro, ma non ha ancora la caratura per risolvere tutte le insidie del ruolo. Per Don Magnifico, oltre a verve comica, ci vuole grande carisma vocale: Enzo Capuano è divertente ma la voce si è rivelata nel contesto sottodimensionata sconfinando spesso nel parlato. Assolutamente spassose le due sorellastre, la bassa e rotondetta  Clorinda di Lynette Tapia e la monumentale Tisbe di Hilary Summers: la regia ne enfatizza meschinità e cattiveria e l’impatto scenico irresistibile ne compensa i limiti vocali.

Qualche perplessità la desta la direzione di Jean–Christophe Spinosi alla guida dell’Ensemble Matheus. Più che la sonorità degli strumenti originali, per natura poco brillanti, è la scelta dei tempi, dilatati o decisamente accelerati, che non facilita le voci tecnicamente meno agguerrite e si avvertono degli sfasamenti nella dinamica. La direzione musicale si rivela però in assoluta sintonia con quanto avviene sul piano registico e nel corso dello spettacolo questa affinità di intenti diventa sempre più godibile.
Ottima la prova del Wiener Staatsopernchor preparato da Huw Rhys James per intonazione e precisione scenica.