Teatro

SALISBURGO, Eugene Onegin

SALISBURGO, Eugene Onegin

Salzburg, Grosses Festspielhaus, “ Eugene Onegin“ di Peter Iljitsch Tschaikowski LE STAZIONI DI ONEGIN L’opera Eugene Onegin, tratta dall’omonimo poema in versi di Puskin, costituisce un caso a parte nella produzione di Tschaikowski, che in un momento tormentato della vita si rifugia in un mondo di poesia, conseguendo modi espressivi intimistici e raccolti, propri della malinconica anima russa, lontani dall’enfasi e dalla grandiosità del grand-opéra allora imperante. L’opera priva “dell’effetto” e nata “da un invincibile impulso interiore” è sottotitolata “scene liriche in tre atti” a sottolineare la dimensione lirico –intimista di un’opera antidrammatica in cui anziché eventi e effetti teatrali prevalgono semplicità e poesia. L’opera tratta dell’incontro tra due outsiders: Tatiana, che si rifugia in un mondo di fantasia per sfuggire l’ambiente ristretto e soffocante della provincia, e Onegin, che dopo una carriera di cinico seduttore diviene preda dello spleen e della depressione. I giovani al centro del dramma sono inseriti in un mondo “vecchio” e l’opera racconta i tentativi falliti di rottura e rovesciamento dei modelli dati. Il nuovo allestimento dell’Eugene Onegin con regia di Andrea Berth e direzione di Daniel Barenboim è stato uno degli eventi del festival di Salisburgo di quest’anno, apprezzato, oltre che per la concezione e le soluzioni proposte, anche per un ensemble particolarmente coinvolto ed in sintonia con la produzione. La regista Andrea Berth ambienta la vicenda in Russia negli ultimi anni del regime, accentuando il grigiore e la claustrofobia di un mondo chiuso e immobile che vieta ogni emancipazione e apertura. L’impianto scenico di Martin Zehetgruber, un’ immensa scena nera rotante su cui appaiono i diversi quadri dell’opera, è parte integrante della regia e trasferisce il senso di desolazione, oppressione e smarrimento in cui vivono i protagonisti. I tre atti sono introdotti da una identica sequenza: un uomo di spalle accasciato su di una poltrona davanti a una televisione che inquadra binari. E’ Onegin, che ripercorre per flash back i momenti clou della sua vita, le sue “ stazioni”. E così, al ruotare della piattaforma/memoria, sfilano in modo cinematografico campi di grano dorati dove i giovani amoreggiano, immensi interni grigi e austeri, una landa di cemento con pozzanghere teatro del duello, una triste sala da ballo dall’aria demodé, fino alla sala delle feste del principe vista attraverso una parete a specchio che ne restituisce un’ immagine deformata e confusa, emblematica di un ricordo che si fa più doloroso e che prelude alla catastrofe. Le scene evocano un mondo statico e immutabile: le contadine operaie che cuciono a macchina senza sosta, il giardiniere dal gesto iterativo e sospeso nel vuoto, i braccianti che sfilano con lentezza per farsi radere il capo dalla possidente Larina, le vecchie donne sedute che guardano con sorriso ebete i giovani ballare, la nutrice curva e rinsecchita che attraversa in continuazione la scena senza cogliere i turbamenti e gli eventi. In questo mondo la sola Tatiana insegue con fermezza un tentativo di emancipazione femminile e ribellione. Tatiana non è la ragazza timida e inconsapevole, ma un’intellettuale forte e matura che ha abbandonato il mondo del sogno e delle fantasticherie per divenire parte attiva. In questa chiave di lettura la scena della lettera perde il carattere di spontaneità e immediatezza: Tatiana scrive senza esitazioni la lettera su di una macchina da scrivere, sembrando più intenta a fissare sulla carta l’ispirazione per un romanzo che non travolta dall’emozione del primo amore. Daniel Barenboim dirige con passione e grande coinvolgimento, si adatta alla regia e mette in evidenza i risvolti drammatici e dissonanti, attento a far scaturire l’amarezza, il gelo dell’anima, tralasciando gli elementi brillanti e decorativi della partitura. Una direzione che sostiene la tensione drammatica con incisivi crescendi e patetici indugi. Peter Mattei ben suggerisce la noia esistenziale di Onegin e ha il physique du role del play boy cinico e snob, indifferente e gelido fino all’ultimo confronto con Tatiana, in cui esplode con violenza il dolore represso. Anche a livello vocale si ravvisa freddezza e distanza, come se il canto di Onegin fosse volutamente depurato della componente emozionale. Anna Samuil ha voce forte e vibrante, capace di grandi arcate e dagli acuti sicuri. La sua Tatiana, forte e prevaricante, si conferma protagonista ed è soprattutto nell’ultimo atto che s’impone, oltre che per i mezzi vocali, per intensità interpretativa e aderenza drammatica. Joseph Kaiser è un Lensky privo di eroismo, debole poeta che canta l’addio alla vita in modo dimesso, addossato alla parete bruciando poesie e ricordi con autentica tristezza. Anche la bella voce, lirica e ampia, esprime il profondo dolore dell’anima. Ekaterina Gubanova/Olga non spicca per caratterizzazione, ma per la voce scura, rotonda e corposa. Renée Morloc / Larina coniuga il buon potenziale vocale a una presenza scenica versatile e comunicativa. Molto riuscita la figura della vecchia Filipjewna interpretata da Emma Sarkissjan. Ryland Davies è un Triquet divertente e maldestro. Davvero toccante Ferruccio Furlanetto, che con voce profonda, giusta lentezza, attenzione alla declamazione e alla parola, ha restituito tutto il pathos e la malinconia del vecchio Gremin. Un trionfo di applausi per tutti, un momento di commozione sul palcoscenico con tutti i Wiener stretti intorno a Barenboim con la regista che lo travolge in un abbraccio di gioia. Visto a Salzburg, Grosses Festspielhaus, il 29 agosto 2007 Ilaria Bellini