Teatro

Salisburgo, Fidelio

Salisburgo, Fidelio

Non convince il nuovo spettacolo di Claus Guth che indaga la mente dei protagonisti. Strepitosa la parte musicale, con i Wiener in stato di grazia e la coppia Pieczonka-Kaufmann a livelli di bravura stellare.

Salisburgo, Grosses Festspielhaus, “Fidelio” di Ludwig van Beethoven

FIDELIO SI AVVITA NELLA MENTE

Dopo la trilogia mozartiana degli anni scorsi, il Fidelio di Claus Guth era particolarmente atteso tra le nuove produzioni di questa edizione del Festival, uno spettacolo importante che verrà sicuramente ripreso ma che ha diviso pubblico e critica.

Il regista, aiutato dalla drammaturgia di Ronny Dietrich, racconta i meandri della mente dei protagonisti descrivendo la solitudine, l'estraniamento, le deviazioni, la violenza, la paura e rendendo irriconoscibile il libretto al punto da credere di vedere in scena un'altra opera. Lo spettacolo è strutturato in scene chiuse, separate da rumori o da musica contemporanea che crea un senso di grande disagio, volutamente. Suoni (clangori e catene) e rumori (sospiri e respiri) al posto dei dialoghi: così la narrazione si interrompe e la storia diventa una non-storia, una sequela di scene cadenzate da inquietanti pause.

La scena di Christian Schmidt è sostanzialmente astratta, una stanza dalle alte e nude pareti al cui centro cala un parallelepipedo nero che, ruotando, consente l'entrata e l'uscita dei cantanti e crea minime diversità scena dopo scena. I costumi, dello stesso Schmidt, sono contemporanei e quotidiani. Essenziali nell'economia dello spettacolo le luci di Olaf Freese, i suoni di Torsten Ottersberg e le videoproiezioni di Andi A. Mueller. Due “ombre” (mimi) accompagnano in scena Leonore e Pizarro, rispettivamente gli attori Nadia Kichler e Paul Lorenger: la prima traduce nel linguaggio dei segni le parole del libretto in modo volutamente esagerato ma finendo con l'essere troppo in scena e troppo ripetitiva. Insomma la lettura freudiana non convince e non avvince e il pubblico apertamente contesta.

Punto di forza dello spettacolo è la direzione di Franz Welser-Moest, giustamente applauditissimo. Il gesto è deciso e preciso, il passo è leggero e rimarcato da levità di spessore e timbro luminoso e cristallino, tanto da generare una tensione narrativa grandissima, declinata nella ricerca di ogni piega della partitura, restituita con tempi perfetti (nonostante le continue interruzioni). L'esecuzione della Leonore II, prima del finale, è magistrale e strappa al pubblico una ovazione lunga dieci minuti. In stato di grazia i Wiener Philharmoniker.

Non da meno i cantanti, particolarmente i due protagonisti. Adrianne Pieczonka ha voce musicale ed è precisa e incisiva nell'esecuzione; si impone nei momenti spiccatamente lirici con voce di ampio spessore e parimenti ampia estensione. Jonas Kaufmann ha fornito un'esecuzione tra le migliori degli ultimi anni: il colore della voce è unico (e non solo per le bruniture), l'emissione è ampia e magnificamente sostenuta senza alcuno sforzo, la musicalità impeccabile conferisce naturale spessore al verso, il fraseggio espressivo e partecipe consente di superare i limiti della regia nel grande soliloquio all'inizio del secondo atto; invece nel finale, non lieto, un corto circuito elettrico spenge il lampadario di cristallo e Florestan stramazza al suolo folgorato, inspiegabilmente.
Tutti adeguati i ruoli di contorno: Tomasz Konieczny è un cupo e cattivo Don Pizarro, Hans-Peter Koenig un paterno e affettuoso Rocco, Olga Bezsmertna una sonora e intonata Marzelline, Norbert Ernst un giovane e luminoso Jaquino, Sebastian Holecek un autorevole e imponente Don Ferrando. Provengono dal Coro dell'Opera di Vienna, splendidamente preparato da Ernst Raffelsberger, i due prigionieri Daniel Lokos e Jens Musger.

Visto a Salisburgo il 7 agosto 2015