Teatro

A 'Settembre al borgo' le quattro mamme di Palmese e Azzurro

A 'Settembre al borgo' le quattro mamme di Palmese e Azzurro

Le figure femminili che pervadono l’universo drammaturgico di Annibale Ruccello si realizzano nelle forme lievitate della sua inquietudine creatrice; moglie o femmina presunta, vittima o carnefice, la donna di Ruccello è l’incarnazione simbolica di un tormento o di un’ansia passeggera, di una proiezione immaginifica o di un desiderio profondo. Nel suo lavoro del 1986 «Mamma»: piccole tragedie minimali la figura materna conserva dell’archetipo popolare soltanto i caratteri formali e linguistici, mentre lo spirito è infettato dal malessere della contemporaneità.

Il progetto drammaturgico di Massimiliano Palmese Quattro mamme scelte a caso riprende apertamente l’opera di Ruccello sin dalla struttura narrativa: una quaterna di monologhi commissionati a giovani scrittori campani – Massimiliano Virgilio, Luigi Romolo Carrino, Alessio Arena e lo stesso Palmese – legati da un disegno di scrittura che è più un omaggio alla memoria che un pleonastico “sequel”: con sensibilità di cui siamo grati gli autori non perseguono la riscrittura o la parafrasi del modello ruccelliano, ma eseguono un’interpretazione libera del tema di riferimento che si struttura con la personalità creativa di ciascun autore. D’altronde il “pop” si storicizza rapidamente, e a distanza di appena ventiquattro anni il testo di Ruccello ha già conquistato il lieve profumo della letteratura; mentre il programma estetico di Palmese è evidentemente quello di configurare una drammaturgia a misura di un “pop” rigorosamente attuale.

Il fatto più bello, testo agrodolce di Massimiliano Virgilio, persegue per scelta autoriale una marcata contiguità stilistica con Ruccello, sia per il gioco accentuato dei contrasti emotivi, sia per una sorta di “neorealismo plebeo” che marca la vicenda della protagonista – madre di una fanciulla che deve abortire – dove il conflitto tra i ruoli non è che un gioco di specchi sul tema della maternità; mentre la lingua, essenzialmente popolareggiante, si concede qualche stilema iperbolico che riecheggia certi barocchismi scherzosi di Enzo Moscato. Efficace l’interpretazione di Rosaria De Cicco, perfettamente a suo agio sui passaggi comici, appena sovraccarica nel dettato drammatico.

Il secondo monologo, firmato da Luigi Romolo Carrino, sposta il registro verso una maggiore levità di tema e di linguaggio; qui la maternità è il nesso verticale che attraversa tre generazioni, dalla nonna portatrice di saggezza tradizionale al nipote rincitrullito dalla spazzatura televisiva, passando per una madre incapace sia nel ruolo di genitrice che in quello di figlia. Lo scontro triangolare fra le diverse età è vissuto nel racconto stizzito dell’anziana donna costretta a guidare i familiari da una carrozzina; lei più tecnologica della figlia e più vitale del nipote. Lo stralunato ménage è affidato all’esecuzione di Antonella Romano, deliziosa nella scelta delle movenze comiche e dei tempi di battuta.

Straordinaria la scrittura del terzo monologo, elaborato dal giovanissimo Alessio Arena con esemplare padronanza della materia testuale: un soliloquio impastato di memoria e di follia, desiderio e sofferenza, di ragguardevole profondità narrativa e linguistica. Alla scrittura torbida e tagliente dà mirabilmente vita una strepitosa Gea Martire, che si affida al flusso visionario della parola con una pienezza interpretativa di gran valore ed un controllo espressivo della voce che ferma l’aria e il respiro degli spettatori.

L’ultimo segmento della tetralogia è il lavoro di Massimiliano Palmese, una sorta di favola morale che mescola divina provvidenza e profezia apocalittica in un testo di vago sapore eduardiano. L’ingenuità radicale della protagonista e la linearità della scrittura fanno prevalere le tinte chiare della narrazione; a cui conferisce un’inattesa varietà timbrica l’esecuzione ispirata di Imma Villa, ben capace di moltiplicare i registri con una ricchezza quasi capricciosa, e di guidare sapientemente la tensione del pubblico.

Completa il cast e la scena la garbata presenza di Marco Sgamato, corifeo smarrito che interagisce a tratti con le protagoniste ora echeggiandone le battute, ora pizzicando distrattamente un mandolino, pura figura di regia che crea continuità narrativa tra le quattro storie. Del governo dello spettacolo s’incarica l’eclettico Roberto Azzurro, che qui predilige l’asciuttezza della parola recitata a qualsiasi sovraccarico scenografico; così il suo lavoro si concentra sulla purezza delle figure attoriali e sulla tenuta del ritmo narrativo. Va sottolineato infatti che l’ardua sfida del quadruplice monologo si conclude con un esito più che brillante: il testo scenico non ha sbavature d’intensità e soprattutto non concede cali di tensione allo spettatore. E infatti il pubblico – platea al completo, qualcuno rimasto fuori – concede un lungo applauso al progetto teatrale e alle sue quattro formidabili interpreti.