Sono le nove di mattina del 26 ottobre 1440: il Vescovo Malestroi guida un corteo che parte dalla Cattedrale di Nantes verso l'isola di Biesse, dove una forca sta per giustiziare un uomo reo di crimini abominevoli. Quest'uomo era forse il primo serial killer della storia conosciuta: Gilles de Rais, compagno d'armi di Giovanna d'Arco ed eroe nazionale alla presa di Orléans, ricchissimo grazie al matrimonio con un'ereditiera appositamente rapita, nominato maresciallo di Francia già a venticinque anni per le sue frequentazioni della corte del delfino Carlo (il futuro Carlo VII), divenuto protagonista dopo il rogo della sua eroina d'una quantità allucinante di omicidi di bambini, forse duecento, e passato alla letteratura col nome di Barbablù.
La notte precedente la sua esecuzione viene raccontata dal lavoro affascinante portato al Teatro Elicantropo: Sangue, ideato e diretto da Laura Sicignano, scritto insieme ad Alessandra Vannucci con la supervisione di Franco Cardini e prodotto dal Teatro Cargo di Genova. In una scenografia (Laura Benzi) che fa sentire sia con i colori che con l'odore di stare chiusi dentro quella cella, dove il terreno rilascia effluvi a metà fra humus e vinaccia, Roberto Serpi e Simona Fasano si fanno interpreti esatti, e con grandissima intensità, di una relazione di opposti fisica e verbale che coinvolge aspetti plurimi: la purezza della Vergine di fronte alla crudeltà spietata del pluriomicida, il padrone-onnipotente di fronte alla serva che si erge a sua redentrice, ed infine Lui assetato di vita e quindi di Sangue, e Lei che alla vita rinuncia per l'estasi religiosa.
Nell'ambiente del XV secolo l'abitudine alla violenza ed alla truculenza era tale da immaginare scenari quotidiani oggi spaventosi, ed è quello in cui Gilles de Rais si muove a suo completo agio, tanto da far sembrare inutile alla coscienza ogni elencazione di tragedie, di fronte alle quali pronunciare con indifferenza “e soprattutto, questo camino non scalda...”; e di questo ambiente i due attori forniscono una convincente ricostruzione, anche interiore.
Perché un assassino dalla atrocità così difficile anche da immaginare, ha bisogno della drammaturgia per avvicinarsi alla morte? Eppure è ciò che accade: Gilles costringe la serva a trasformarsi in attrice per rivivere il significato della sua intima vicinanza spirituale con Giovanna d'Arco, e perciò, come forse in nessun altro momento, la sua vita è messa nelle mani di un altro, qualcuno che gli consenta con il gioco di raccontare a sé stesso la sua realtà, prima di essere giustiziato. Ed infatti non è per nulla un gioco, né soltanto un raccontarsi, ma anche e soprattutto un tentativo estremo di redimersi: dopo le bugie, dopo il terrore disseminato, dopo le idee di tentativi di corruzione e perfino, delirio supremo, una richiesta di Ordalia che dice quanto sia forte l'autoinganno della Innocenza, alla fine soltanto la Santa Vergine che permette al Re Carlo di essere incoronato, può salvargli l'anima, e fargli accettare ciò che si compierà.
Roberto Serpi e Simona Fasano fanno sentire in ogni istante il peso straordinario di una cruda vicenda fisica e psicologica, portando ottimamente sui volti e nelle parole sia lo strazio della vicenda che l'estasi della possibile redenzione. E se la mattina dopo la forca ed il rogo accolsero lui ed i due servitori complici Henriet Griart e Poitou, quella notte servì per un ultimo colpo di scena, perché grazie alla profonda contrizione che riuscì a dimostrare, sia essa dovuta a pentimento o piuttosto alla mente malata su cui non è possibile fare ulteriori approfondimenti, Gilles morì solo dopo aver commosso la folla intera che non gioì affatto per l'esecuzione, ed avendo ricevuto, ebbene sì, lui, mostro più atroce fra tutti i mostri, l'assoluzione dai peccati da parte di un sacerdote.