Interessante l'idea che accoglie il principo di questo cammino sia fisico, sia astratto: Addio alla fine si traduce nel lasciare dietro la porta che a breve si valicherà, ogni idea caduca della grande Soglia da varcare, andiamo oltre la morte e tutto ciò che pesa nella sua immanenza terrena, liberiamoci dei suoi fili che muovono le membra e le idee, e ritroviamoci in uno spazio oltre.
Il Virgilio (Leandro Amato, sul testo di di Bo Tarenskeen) che conduce il pubblico verso l'ingresso di questo spazio, accoglie tutti ben prima dell'inizio, e questo movimento dovrebbe servire anche ad allungare in maniera sensibile la curva del climax, quando ancora non si percepisce l'inizio ma già ci si sente dentro qualcosa che sta avvenendo: la Guida sfoggia una coloratissima giacca circense, ed alternando i toni che si elevano fin quasi al parossismo (ed insieme con i ballerini giunti da chissà dove con un'urna cineraria nelle mani a fare anch'essi da accompagnatori) introduce nel capannone del Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa, dove si trova l'allestimento che ospita la coreografia di Emio Greco e Peter C. Scholten, una proposizione scenografica di una certa efficacia (soprattutto grazie al perimetro della location) che vede il pubblico diffuso lungo i lati di una pedana di 30 metri, preceduta da installazioni con abiti bianchi e neri e carte raggomitolate, mentre sul fondo, dove siede spesso il nostro Virgilio, una scala separa la danza dal concetto, ed il movimento dalla parola.
E proprio questa della separazione, tuttavia, rimane la nota meno riuscita, per il semplice fatto che esiste, e che resta netta fino alla fine, come una linea demarcata: da qua, la coscienza ed il suo scorrimento che sembra quasi godere di un'ardua intellegibilità, una dimensione nella quale si rievocano utopie sociali nelle citazioni di Hans Boutellier (The improvising society) e visioni ispirate all'abusato “E la nave va” di Federico Fellini; mentre di là, le dinamiche di puro scoppio, crudo e spesso ripetitivo, i vigorosi tratteggi di spirali e linee continue dei sei ballerini Dereck Cayla, Quentin Dehaye, Emio Greco, Neda Hadji-Mirzaei, Kelly Hirina, Arnaud Macquet, ed Helena Volkov, che creano su musiche di Šostakovič, Ives ed altre rielaborate da Scholten, un sentiero coreutico a volte fiammeggiante, altre introspettivo, con anfratti sublimati che restano separati fisicamente, grazie anche alla disposizione in estrema lunghezza della scena ed al disegno delle luci di Henk Danner e Paul Beumer; e va anche rimarcato che la vicinanza, fisica e non solo, con le bellissime performance della Vertigo Dance Company, non aiutano certo ad una migliore disposizione verso il risultato.
Il viaggio termina altrove, all'aperto e davanti al mare, con il canto di Patrizia Di Martino e ritmi fortemente variati, giocando anche sulla reminiscenza felliniana del rinoceronte (“l’unico tentativo per evitare il disastro, per non precipitare nella catastrofe, potrebbe essere quello diretto a recuperare la parte inconscia, profonda, salutare di noi stessi”, spiegò lo stesso Fellini), elemento che aumenta vieppiù la sensazione di aver visto qualcosa che cercava disperatamente di essere troppo di più di ciò che in realtà era, e che cercava un télos là dove non se ne sentiva il bisogno, compresso da un inutilmente soverchiante intellettualismo.