Uno sguardo potenzialmente verista dall'interno delle stanze disadorne sul divario tra quella che una volta si sarebbe detta classe operaia e coloro che pur provenendo dalla stessa estrazione sociale, hanno “fatto fortuna”, sono riusciti a distaccarsene ed a passare così dal Southie, una periferia-tipo di Boston, a Chestnut Hill, altrettanto tipico quartiere-bene. Non altrettanto facile però è il distaco mentale, o addirittura, come in questo caso, la sedimentazione indolore delle scorie e delle eredità del passato, nè l'adattamento al presente che sebbene si posizioni apparentemente ben oltre il livello-parvenue, tuttavia non raggiunge una nobiltà di sentimento priva dei germi con cui nacque distorta.
Il drammaturgo statunitense David Lindsay-Abaire, autore della celebre Fuddy Meers e premio Pulitzer per il teatro nel 2007 con il dramma Rabbit Hole, con Good People (qui riadattato da Roberto Andò) racconta sia la vita grama della ricerca del lavoro, della periferia sempre a rischio di diventare violenta, sia l'aspetto psicologico del ritrovarsi che coinvolge due persone dopo oltre 30 anni, e di conseguenza l'incontro/scontro fra Margie (Michela Cescon), rimasta a soggiacere alle miserie della banlieu, con una vita non sprecata ma dedicata a portare avanti se stessa e la figlia che (forse per parto prematuro, o forse no...) convive con un grave handicap, e Mike (Luca Lazzareschi), che ha invece da raccontare la storia di chi è riuscito nella vita, diventando un medico affermato, con una grande casa ed ogni benefit materiale e finanche morale che nel Southie i cittadini della cosiddetta “Bah-ston” possono solo sognare.
In una scenografia adeguatamente realistica di Gianni Carluccio, la seconda parte dello spettacolo si fa preferire alla prima, soprattutto quando si accendono i toni e si offre più materia viva allo scontro frontale fra i due destini, oppure nelle parti sospese che Maggie trasforma in comiche, mentre purtroppo per la maggior parte della pièce, la catterizzazione della protagonista si avverte come inefficace, essendo sottoposta ad una gestualità di un sobborgo da clichè di sitcom, insieme con una ossessività del ritmo, dei toni e degli accenti forzati e sforzati che rendono il suo personaggio monocorde come un telefilm anni '80, troppo difficile da accettare soprattutto dopo aver visto la Margie-tipo che Frances McDormand nel 2011 ha fatto vivere a Broadway. Anche Mike è più a suo agio in divenire e nell'elevazione dei toni drammatici, quando cioè si riflettono solo in lontananza le tracce della sua appartenenza ad entrambe le classi sociali, mentre la cinica Dotti (Loredana Solfizi) svolge il suo compito assieme a Roberta Sferzi (Jean), che fanno da grilli sparlanti ed a tratti da contraltare narrante, e Nicola Nocella porge un giustamente sperduto ed irritabile ex-datore di lavoro.
La sensazione è che non abbia molta importanza capire se i fatti vadano infine in un certo modo o piuttosto in un altro, suggeriti o meno dalle mezze parole, dagli ammiccamenti e dalle azioni: quello che conta, è che bisogna fare attenzione a non parteggiare per la facile sponda pauperistica di Margie, sembra questo il sottaciuto suggerimento, grazie all'assenza formale di un effetto ad captandam benevolentiam che compare in un paio di dialoghi, e che viene sottolineato anche e perfino da quel simbolo più alto della borghesia affermata che è la moglie di Mike (una Esther Elisha molto decisa e ciononostante l'unica a mostrare due incertezze evidenti): perchè good people, a modo loro, sono entrambi le parti in causa, brava gente, convinta di esserlo stata, gente che fa delle scelte, ed il difficile sindacato su di esse è la parte migliore della scrittura di Lindsay-Abaire, senza la quale si sarebbe limitata ad un acquarello scontato e privo del clinàmen con cui far scontrare gli atomi della storia.