Teatro

Speciale NTFI 2014: Un Beckett napoletano? La sfida di Lluis Pasqual

Speciale NTFI 2014: Un Beckett napoletano? La sfida di Lluis Pasqual

Al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli è andato in scena, per la regia di Lluìs Pasqual, Finale di partita di Samuel Beckett. Il sipario si apre su una scena post-industriale. La didascalia di apertura indica un "interno senza mobili", Lluìs Pasqual la traduce in uno spazio delimitato da un alto pannello di lamiera biancastra, che ricorda un capannone. Il suolo nero, catrame, serve allo scenografo Frederic Amat per rendere il senso di un'apocalittica arsura. Incatramati a sinistra i "due bidoni per la spazzatura" voluti da Beckett, dai quali emergeranno Nagg (Gigi De Luca) e Nell (Angela Pagano); Hamm (Lello Arena) è paralizzato al centro su una sedia. Sotto una luce siderale, tutto è desolazione, tempo-non-tempo, nostalgia senza memoria, spazio-non-spazio: al di qua della lamiera, l'interno è confondibile con un esterno. Al di là, una cucina e la non-natura di un mondo grigio, "quasi nero: nero chiaro", da osservare da lontano con il cannocchiale attraverso due finestre buie.

Il plot, come sempre in Beckett, è all'osso: Clov (Stefano Miglio) è l'unico personaggio capace ancora di deambulare, va e viene dalla cucina, vuoi per prendere uno scaletto e protendersi dalle finestre a scrutare il mondo, vuoi per sterminare un topo che "morirà se non lo ammazzo", vuoi per piazzarsi davanti al muro a fissare "la sua luce che si spegne". Gran parte delle sue azioni sono dettate da Hamm, più anziano, che gli sembra legato come un vecchio a un badante. Hamm è cieco: gli occhi e le gambe di Clov gli servono per guarire la sua inazione. Nagg e Nell, padre e madre di Hamm, si affacciano dai loro bidoni, in piedi sui loro "moncherini", per chiedere un biscotto o un confetto, ma mai per manifestare al figlio un cenno d'affetto, o per riceverne. Unico conato residuo, a testimonianza che la natura non è poi del tutto andata, la fame. La memoria è sopraffatta dal basso istinto: impossibile rievocare storie coerenti, connesse, sensate. Tutto stagna nel gioco delle azioni subito contraddette; è una drammaturgia del tentone, o del sobbalzo, che si avvita disordinatamente su se stessa, e implode, immobilizzata tra una domanda inevasa sul senso della vita e l'ammissione dolorosa che i biscotti sono finiti.

Fin qui Beckett. Del quale, nella regia di Pasqual, vive senz'altro il gioco metateatrale. Vedi il foglietto su cui Clov, dopo aver domandato "E io che ci sto a fare?" e aver ottenuto da Hamm la risposta "Per darmi la battuta", legge le prossime imbeccate. Vedi il trucco clownesco di Nagg e Nell, che restituisce loro il senso pieno di una tragicomicità non dichiarata nel testo. Vedi, infine, i due tondissimi occhi di bue puntati su Hamm e Clov, dalla connotazione avan-spettacolistica.

Ma l'angoscia esistenziale che dovrebbe far da sfondo a quest'ironia? Lo spessore emotivo che dovrebbe sostenere la resa scenica delle clownerie beckettiane? Tutto questo pare compromesso a causa di un incompleto lavoro sugli attori e forse di un'infelice distribuzione dei ruoli. L'egregia interpretazione di Angela Pagano è purtroppo confinata in un ruolo troppo striminzito, quasi un cameo, mentre vengono attribuite parti troppo importanti a Gigi De Luca e soprattutto al giovane Stefano Miglio, che non riescono a tenere il ritmo della comicità nè a restituire la tragedia sottesa ai non-sense. E così la valida e a tratti sorprendente interpretazione dello stesso Lello Arena risulta compromessa dai compagni di scena, emotivamente deboli, forse poco adatti alla radicalità di Beckett. Non basta appellarsi, come fa Pasqual nelle sue note di regia, a una vicinanza tra l'attore napoletano e la filosofia beckettiana, contraddistinti entrambi da "una reazione ironica di fronte all'assoluto delle sofferenze della vita". Occorreva impegnarsi a rendere – napoletanamente o meno – quella delicatissima miscela di astrattezza e concretezza, assurdità e sensatezza, levità e gravità, che rende Beckett unico, anche nel suo genere.