Emanuela Bianchi porta in scena con Lamagara uno spettacolo che sorprende per la sua forza, la sua efficacia, la sua bellezza e la sua riuscita drammaturgica.
La donna, libera, non asservita al maschio, dotata di conoscenze autonome e ctonie sulla natura e sulla Terra, una donna che viveva libera già nei secoli scorsi, costituisce la materia incandescente di una narrazione che porta sulla scena un personaggio vivo e vero.
Non solo perché Lamagara si rifà a un fatto storico raccontando di Cecilia Faragò, l’ultima donna processata per stregoneria nel Regno di Napoli, in Calabria, nel 1769, ma soprattutto perché Bianchi porta in scena un personaggio femminile riproponendone la sua essenza di donna, con la sua rete di conoscenze e di rapporti umani (la madre dalla quale ha appreso le conoscenze sulle erbe) di relazioni interpersonali (, il marito e i due figli uno morto infante l'altro entrato in convento) e sociali, prima pacifiche (il paese in cui vive si avvaleva delle sue conoscenze sulle piante officinali) e poi diffidenti, quando la morte di un parroco diventa il mezzo per esautorarla e sottrarle il patrimonio, suo e del marito deceduto, che, in quanto donna, non può amministrare.
Emanuela Bianchi interpreta Cecilia, non come un personaggio storico che rievoca come memento della ferocia maschilista e misogina della società di allora (illuminanti alcuni passi recitati della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, nei quali si proibisce alla donna ogni autonomia individuale ed esistenziale ribadendo la sua totale sottomissione all'uomo), la interpreta come personaggio reale che sembra approdare sul palcoscenico direttamente da quel periodo storico con un lessico, un linguaggio del corpo, una mentalità, una sensibilità e una conoscenza proprie, autonome e altre.
Nell'evocazione di questa donna del settecento riscopriamo un sentire e una visione del mondo antagonista concreta e possibile e per questo, allora come ora, avversata e impedita.
Quello di Cecilia non è costruito sul mero racconto delle sue vicissitudini (compreso il processo che fece scalpore interessando direttamente il Re che legiferò impedendo venissero celebrati ulteriori processi per stregoneria nel suo regno) ma piuttosto sui commenti lucidi e puntuali di una donna tutt'altro che sprovveduta e ingenua o fragile e indifesa.
La cura sulla scena, il particolare di una candela profumata accesa, la terra con cui Cecilia entra in contatto o, ancora, il canto popolare e magico (eseguito da Bianchi splendidamente), gli oggetti che Cecilia manipola (come i sassi percossi per scandire un ritmo) le contorsioni di un corpo attraversato dalle emozioni che si traducono in una partitura coreografica attraverso la quale Cecilia ci parla e vive non sono mai meri espedienti teatrali ma costituiscono sempre il correlativo oggettivo di una esistenza altra, viva, vera e tangibile che vive sulla scena autonomamente (indimenticabile il momento in cui viene arrestata e mostrata per le vie del paese in catene restituito da Bianchi con dei passi di danza eseguiti con l'ausilio di due nastri elastici neri coi quali si cinge corpo vita viso occhi e bocca).
La Cecilia Faragò cui Bianchi dà vita è una donna autonoma e intelligente, tutt'altro che asservita o incapace di comprendere quanto le sta capitando, tanto che la sua presenza su palco si fa mezzo di un risarcimento morale che ci rende responsabili tutti e tutte.
Una metafora luminosa e vivente della possibilità di un modo di vivere di una donna che è ora sulla scena come è stata allora nella Calabria del 1700, non importa quanto gli uomini abbiano cercato di zittirla.
Roma Fringe Festival 2014 - Lamagara