Scritto intorno al 1922 e pubblicato postumo, e incompleto, nel 1926, Il Castello è tra romanzi di Kafka quello che ha subito più esegesi, diverse e non sempre complementari, a comincare da quella religiosa (la più discutibile) del suo amico, nonchè curatore delle sue opere, Max Brod.
L’adattamento teatrale presentato da La Compagnia dei Masnadieri a cura di Massimo Roberto Beato dal titolo Il castello di K. espunge moltissimo del materiale narrativa originale ricavandone un racconto claustrofobico dove lo spazio teatrale non perde mai i connotati dell'osteria dove si apre il racconto.
Se da un lato la riduzione del materiale kafkiano porta a un nucleo coerente di temi e fatti, la messinscena sofrre di un registro naturalistico che concentra l'attenzione più sull'evolversi della storia che sulla statura universalistica che le vicende del romanzo assumono e che son state così abbondantemente estrapolate nel corso dei decenni dai vari esegeti di un romanzo che rimane ancora oggi privo di una unica e definitiva chiave di lettura.
Quella onirica e iperuranica proposta da La Compagnia dei Masnadieri ci pare più preoccupata a far quadrare il racconto dandogli una spiegazione logica (la vita è un sogno dalla quale ci svegliamo morendo, noto aforisma di Virginia Woolf) piuttosto che raccogliere qualcuna delle suggestioni che il testo offre (la burocrazia come metafora del potere, o della condizione umana, o dei rapporti padre figlio, tanto per citare qualcuna tra le più note) che rimangono soffocate da una messinscena che non riesce a prescindere mai da se stessa.
La recitazione nonostante si basi su registri interpretativi vari, tra di loro concorrenti per non dire contraddittori (si va dalla recitazione disinvolta dell'Agrimensore a quella impostata dell'oste) si attesta sempre su un baricentro naturalistico con infelici escursioni nell'ironia - quando il figlio del portiere del castello rifà il verso del telefono mentre compone i numeri mimando i giri del disco combinatore... - un uso improvviso e improvvisamente abbandonato di marionette e maschere (che una volta indossate richiedono un preciso linguaggio del corpo qui totalmente assente) senza mai affrancarsi dalla preoccupazione di restituire un'atmosfera gotica con tanto di macchina del fumo per evocare la nebbia.
Infelice anche la scelta di calcare la mano sugli stereotipi di genere, quando un attore intepreta la moglie del sindaco, facendone una macchietta tutta moine affettate.
Questi diversi registri interpretativi coesistono sulla scena senza essere sostenuti da una chiave registica coerente e forte che avrebbe giovato ad alleggerire un impianto scenico che non sa scrollarsi di dosso il peso di una letterarietà che finisce per costituire un muro tra spettacolo e pubblico, tenuto giocoforza a distanza da un racconto mai facile da seguire.
Tanto che usciti dalla sala quel che rimane più impresso è la fantasia con cui sono stati realizzati i costumi.
ROMA FRINGE FESTIVAL 2014 - Il castello di K.