La Cappella della Pietà de’ Turchini di Antonio Florio è uno dei gruppi più prestigiosi nel panorama internazionale della musica antica, costantemente impegnato a riscoprire e a valorizzare con gusto e fantasia autori e prodotti poco o nulla frequentati della civiltà musicale napoletana. Tuttavia le istituzioni della città in cui l’ensemble è nato più di vent’anni fa non si rivelano sempre attente all’attività di questi raffinati musicisti, che di norma ricevono accoglienza e plauso più all’estero che in patria. È perciò con particolare piacere che il pubblico napoletano ha salutato la messinscena di Partenope, rara partitura di Leonardo Vinci su testo di Silvio Stampiglia eseguita per la prima volta a Venezia nel 1725. I Turchini avevano già proposto quest’opera preziosa al pubblico francese nel 2005, e di nuovo quest’anno agli spettatori spagnoli; proprio dalla recente messinscena iberica, co-prodotta da Napoli Teatro Festival Italia, derivano – come vedremo – alcuni omaggi alla couleur locale.
Uno dei tratti caratteristici dell’operismo sei-settecentesco è la sua natura cangiante e malleabile: in un sistema produttivo basato sull’incessante circolazione delle opere e degli artisti, i libretti e le partiture conoscevano continue metamorfosi per adattarsi alle disponibilità e al gusto delle diverse piazze teatrali. Florio ha sempre sposato tale principio, proponendo non recuperi archeologici ma intelligenti riletture capaci di conciliare il rispetto per i testi e l’incontro con la sensibilità e le aspettative del pubblico contemporaneo. Questa Partenope ne è l’ennesima prova: i tre atti del lavoro di Vinci, che fa capo al genere serio, vengono incorniciati da tre momenti comici (un prologo e due intermezzi) che non appartengono alla messinscena originale veneziana, ma richiamano un altro momento della storia del libretto di Stampiglia, vale a dire l’intonazione che ne fornì Domenico Sarro nel 1722 per il San Bartolomeo di Napoli. In quell’occasione Sarro compose infatti anche gli intermezzi buffi Eurilla e Beltramme per soprano e basso, che Florio ha scorciato e rielaborato con grande libertà: la parte femminile è interpretata dal tenore en travesti Pino di Vittorio, la recitazione si mescola al canto, le arie originali convivono con innesti esogeni (nel prologo, l’aria di Meneca «Negre chelle che stanno soggette» dal secondo atto de Li zite ’ngalera di Vinci; nel primo intermezzo, un fandango di José de Nebra), e il tutto viene condito con una salsa spagnoleggiante che rinvia al precedente utilizzo dell’allestimento. Improntati a un’estetica queer e ad un istrionismo che talvolta sconfina nell’avanspettacolo, questi momenti rispettano non certo la lettera, ma lo spirito degli intermezzi antichi, dei quali riprendono la funzione e reinventano la forma e il carattere. Un plauso particolare merita Marco Moncloa, che dona al personaggio di Beltramme uno spessore vocale impeccabile e una presenza scenica efficace.
Per l’opera di Vinci, il regista Gustavo Tambascio (di origine argentina ma attivo da anni in Spagna) ha scelto un allestimento sontuoso, in ciò perfettamente assecondato dalle strepitose scene bibienesche di Ricardo Sánchez Cuerda e dagli splendidi costumi di Jesús Ruiz. Le posture e i gesti degli interpreti e delle comparse si ispirano alle testimonianze iconografiche degli spettacoli settecenteschi e alla coeva trattatistica, e aderiscono a una retorica corporea che esplicita o rafforza i significati e gli affetti del testo. I codici figurativi, cinetici, letterari e musicali risultano perfettamente coordinati in un unico sistema espressivo per dar vita a una performance coesa e avvincente, estetizzante ma non leziosa, curata in ogni dettaglio e disseminata di sottili allusioni.
Ottima la prova dell’orchestra. Notevoli le voci, impegnate in una variopinta galleria di arie che spaziano dalla contemplazione malinconica all’abbagliante virtuosismo. Maria Grazia Schiavo ha interpretato il personaggio di Rosmira con timbro cristallino e agilità senza sforzo; buona anche la prova di Stefano Ferrari (un limpido Armindo) e di Maria Ercolano (Arsace); un po’ meno smaglianti la Partenope dal timbro scuro di Sonia Prina e l’Emilio di Eufemia Tufano; completava il cast Víctor Díaz nel ruolo secondario di Ormonte. Applausi convinti per tutti, nonostante qualche defezione nel pubblico tra secondo e terzo atto.
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