Teatro

Teatro di sangue. Pierpaolo Sepe porta in scena Crave di Sarah Kane

Teatro di sangue. Pierpaolo Sepe porta in scena Crave di Sarah Kane

I personaggi di Crave, che nel testo di Sarah Kane si chiamano solo A, B, C ed M e che la regia di Pierpaolo Sepe non si affanna a definire meglio, sono entità spersonalizzate, con psicologie che si fondono in ondate emotive tradotte dalla regia in immagini violente.

Una luce rosso sangue piove sul pubblico all'entrata della Sala Assoli di Napoli, il 6 giugno 2015. Gli distorce i sensi e gli comprime gli occhi. Una grata di ferro è oltre questo rosso, e ci stacca da ciò che vedremo. Attraverso le sue maglie appaiono quattro corpi, due di maschi, due di femmine: i personaggi di Crave, che nel testo di Sarah Kane si chiamano solo A, B, C ed M e che la regia di Pierpaolo Sepe non si affanna a definire meglio. Le individualità sono confuse in entità  spersonalizzate, le psicologie si fondono in ondate emotive che il testo incatena in frammenti verbali e la regia traduce in immagini violente.

"Dare ordine al caos e disordine alla riga" è, secondo Sepe, il compito di un regista che porta in scena la drammaturga britannica, la cui scrittura trasuda della sofferenza che ne tormentò l'esistenza. Sepe fa muovere e parlare forsennatamente gli attori Gabriele Colferai, Dacia D'acunto, Gabriele Guerra e Morena Rastelli e, bagnandoli con le sapienti luci di Cesare Accetta, li imprigiona nell'inquietante scenografia di Francesco Ghisu. Ddietro la grata regnano un bianco sporco e la penombra dei controluce: è un bagno pubblico senza cessi o l'androne di un manicomio? In ogni caso, è una specie di campo di de-centramento, un non-luogo dove le vite di quattro non-persone vengono centrifugate a sputar fiele di parole, a cercare invano la via di fuga, a evocare senza nostalgia amori impossibili, verità bruciate, bellezze inattuali.

Violenze carnali, identità allo sbando, erotismi sviliti a nudità di animali da zoo, disperate ma inutili richieste di aiuto sono fra gli elementi di (non)senso che  i quattro attori sputano in faccia al pubblico mentre lo fissano dritto negli occhi da dietro quella grata che irrimediabilmente ne segna il distacco. Sono come esseri perduti in un al di là senza speranza, fenomeni da baraccone costretti a recitare una parte non scelta nè rifiutata. Esseri anonimi, mostruosi: si scambiano i vestiti e le parrucche, le loro figure trasfigurano, le loro carni si denudano prive di erotismo, mero supporto pornografico per uno sguardo violentato anch'esso, perchè privato dei suoi oggetti di senso compiuto. La regia di Sepe distribuisce i pezzi di questo dolore in un puzzle dal doppio registro: quello della dizione e quello del movimento. Gli attori quando dicono sono fermi a guardarci, attaccati alla grata; e quando si muovono, tacciono. In questo modo il testo di Kane acquista uno spazio di attenzione che è il presupposto necessario per passare al pubblico, e forse neanche ci basta per seguirlo fino in fondo al suo senso frantumato. D'altra parte, in questa alternanza, risaltano meglio i  movimenti di scena, laddove la regia, grazie anche al lavoro di Chiara Orefice, emerge pura, staccata dal testo eppure nutrita di tutto il suo dolore, che compone in immagini potenti: bamboline scagliate verso di noi che finiscono incastrate sulla grata, voci gridatici addosso, corpi in cadute pesanti o slanci aggressivi.

Jeff Buckley viene a chiudere lo spettacolo, consolatorio. La sua voce è come una lingua sonora che lecca le nostre e le loro ferite. Ma sugli applausi, le sagome di A, B, C ed M non sono ancora quelle degli attori che svestono i panni dei loro personaggi: ci salutano beffardamente ancora da dentro il loro mondo. Quesi gesti grotteschi sono ancora più inquietanti di quelli compiuti fino a poco fa: il pubblico ha abbassato la guardia ed un ultimo pugno lo colpisce allo stomaco. Il respiro che prendiamo dopo l'apnea ci inietta, senza aspettarcelo, l'ultimo sorso di veleno, come a dire: siamo ancora qui, siamo i vostri fantasmi, le vostre angosce. Credevate di liberarvi di noi, ma voi stessi siete incatenati alla vostra vita come noi lo siamo a questo spettacolo. Il mondo è un solo palcoscenico, ora chiedetevi: in tutto questo tempo, chi guardava chi? Chi era chiuso dietro le sbarre?