Dopo quarant'anni di assenza - l'ultima e unica apparizione risale al 1963, con la presenza della 'divina' Leyla Gencer - un'opera di non frequente apparizione come "La battaglia di Legnano" ha visto il suo ritorno al Teatro Verdi di Trieste, grazie ad un allestimento in coproduzione che ha debuttato lo scorso anno all'Opera di Roma. Più avanti, in previsione l'approdo al Gran Teatre del Liceu di Barcellona.
Tra le opere di Verdi questa è senz'altro quella più intrisa di spirito risorgimentale - Milano aveva da poco vissuto a marzo 1848 le sue memorabili Cinque Giornate - e quella di maggior presa sul pubblico d'allora. Come personale contributo al movimento del Risorgimento Verdi e il librettista Cammarano donavano consapevolmente ai suoi fautori, come ha commentato Charles Osborne, non un singolo brano - vedi il coro del "Nabucco" o quello de "I lombardi" - bensì un intero lavoro drammatico, un'opera tutta basata sulla tesi della indifferibile liberazione dall'opprimente giogo straniero. Guarda caso, imposto nell'Italia del 1176 come in quella del 1849 - da parte d'un oppressore di lingua tedesca. Opera ancor vitalissima dunque "La battaglia di Legnano", di poco precedente l'exploit di "Luisa Miller" e del trittico 'popolare', meritò un'orchestrazione più accurata che in precedenza, una più completa definizione dei personaggi, una maggiore grandiosità dei momenti corali: prezioso frutto della recente frequentazione da parte dell'Autore dei teatri parigini, le cui novità non lo lasciarono affatto indifferente. E se l'insieme appare drammaturgicamente discontinuo per la frammentazione in brevi quadri, con fastidiose cesure quando il libretto del Cammarano transita bruscamente dalle riflessioni intimistiche alle scene d'insieme, a infondere coesione pensa il trattamento musicale che svolge il ruolo di formidabile collante. Se messa in mani esperte e sicure - vedi la memorabile performance scaligera 1961 di Gavazzeni, disponibile su CD Myto, ma anche l'incisione Philips di Gardelli con Carreras e la Ricciarelli - come lavoro teatrale "La battaglia di Legnano" possiede cospicue qualità drammaturgiche e musicali, e regge benissimo in scena; mani sicure che, ahimé, non ha dimostrato di possedere Boris Brott, il direttore canadese che aveva già aperto la stagione triestina con una "Anna Bolena" che non aveva del tutto convinto. Ma questa sua concertazione de "La battaglia di Legnano", secondo titolo in cartellone, mi pare non avesse né capo né coda, né riuscisse a sostenere a dovere l'intero impianto verdiano. Rintronante e slacciata sin dalla bella Sinfonia letta troppo di fretta, la lettura di Brott proseguiva imperterrita con tempi slegati, nessun collegamento logico tra le parti, poche sottigliezze e poche sfumature, fragori bandistici per ottoni e fiati, un coro non sempre impeccabile.
Mettiamoci di giunta le perplessità che nascono da uno spettacolo complessivamente spento e confuso - posto sotto la regia di Ruggero Cappuccio - che non mi sembra mettesse in gioco chissà quali concetti. Carlo Savi ha escogitato scenografie costituite essenzialmente da gigantografie di famose opere d'arte (Leonardo e Cellini, Delacroix e Hayez, sino alla contemporaneità di Mimmo Paladino e Matthew Spender) ingabbiate telai metallici e sottoposte a lavori di restauro con lente, penose pennellate. Scrive Cappuccio nelle sue note di regia (apparato in linea di principio di per sé inutile, la cui lunghezza di solito è inversamente proporzionale alla comprensibilità dello spettacolo cui si accompagna) che nella sua visione «la ricostruzione di Milano, con cui il libretto prende l'avvio, si trasfigura nell'inizio di una gioiosa operazione di restauro, mentre in filigrana le opere dei grandi artisti di altre nazioni testimoniano l'amore per la propria identità culturale e il rispetto di quelle altrui». Mah…non mi sembra questo il senso del lavoro verdiano, che meriterebbe un ben diverso trattamento scenico. Lo stesso Savi ha poi voluto vestire a casaccio il coro con abiti qualunque, ottenendo un effetto veramente straniante, come si assistesse ad una semplice prova d'insieme; ed ha disegnato per i protagonisti costumi assolutamente banali, che sembravano pescati a caso negli armadi della Ditta Tirelli. Per dire, la povera Lida all'ingresso in scena vedeva esaltato il suo profilo da un vestito nero luccicante anni Venti e da un lunghissimo filo di perle assolutamente ridicolo, Arrigo indossava solo un'ampia camicia bianca e pantaloni neri, sai che fantasia!
Almeno il pubblico avesse potuto consolarsi con i cantanti … ma anche qui le cose non andavano sempre per il verso giusto. Dimitra Theodossiou è partita in sordina (in «Voi lo diceste amiche » ha avuto una breve defaillance, si è ripresa nell'adagio «Quante volte come un dono» e nella bella cabaletta a seguire), ma nel complesso direi abbia consegnato una Lida inferiore al suo solito standard, veramente efficace solo nei due catartici dialoghi coll'antico amante e con il marito. Andrew Richards tratteggiava a modo suo un Arrigo vibrante e virile, con un'aria d'ingresso abbastanza incisiva; ma poi scivolava nella routine, mostrandosi monotono nel fraseggio; incapace di sfumare, di pennellare mezze tinte, sempre sullo stesso tono tragico ed esacerbato. Assai più convincente mi pareva il Rolando del baritono argentino Leonardo Lopez Linares, che se non metteva in atto quello scavo di psicologia che avrebbe meritato il suo personaggio, indubbiamente il più articolato in scena; si mostrava però vocalmente generoso, grazie al bel timbro, all'emissione ricca di armonici, ad un fraseggio dallo spirito molto 'verdiano'. Un po' impettito e legnoso il Barbarossa di Enrico Giuseppe Iori, modesti gli interventi dei comprimari: Francesco Musinu e Federico Benetti (i consoli di Milano), Gabriele Sagona (il podestà di Como), Giovanni Guagliardo (Marcovaldo), Sharon Pierfederici (Imelda), Alessandro De Angelis (l'araldo), Nicola Pascoli (lo scudiero di Arrigo).
Ricordiamo che nella seconda compagnia, e nei i ruoli principali, erano presenti Sara Galli (Lida), Renzo Zulian (Arrigo), Giorgio Caoduro (Rolando).
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