“Non dimenticate mai chi siete e da dove venite”
La matriarca Leyla intona cantilene berbere, ferma su quella strada che le sue carovane del sale percorrevano incontro al sole, ed è tempo di bilanci. L’età avanzata, i ricordi, il peso delle responsabilità la mettono di fronte a quello che si rivela essere il suo dubbio più irrisolvibile, una vicenda intima e familiare che riguarda Yusdra, la nipote prediletta, consegnata in segreto all’Occidente, e tenuta all’oscuro della verità sulla sua famiglia (“L’ho fatto per il suo bene o per il suo male?”).
Liberamente tratto da Yusdra e la città della sapienza di Daniela Morelli, e con l’adattamento drammaturgico di Daniela Morelli e Gigi De Luca (che ne cura anche la regia), "Nata sotto una pianta di datteri" gode della magnifica location dell’anfiteatro all’aperto contenuto nel complesso del Museo Nazionale di Pietrarsa, nell’opificio borbonico di Pietra Bianca, della quale si circonda d’aria e nell’aria gli spazi desertici evocati si esaltano, a maggiore distanza possibile da quell’occidente considerato qui nei suoi elementi più avvilenti e con occhi del tutto immersi nella sola sabbia, a dire il vero perfino in maniera un po’ eccessiva, nella sua struttura manichea e divisiva fra occidente-cattivo e deserto-buono (laddove oltretutto la storia stessa non sembra invece poter sostenere la tesi, viste le premesse assai poco edificanti della storia).
Una prima mondiale che racconta dunque due donne, apparentemente diversissime ed invece accomunate dall’originale atto della nascita, entrambe sotto una pianta di datteri, e destinate a contenere passato e futuro della tribù, detenere conoscenza, sapere e tradizioni che sono sempre più difficili oggi da rispettare, mentre in passato erano il valora maggiore da conquistare (“Pur di avere questa conoscenza, il nostro avo pagò”); e se Pamela Villoresi si cala con efficacia nella nomade costretta a manifestare sicurezza ed a prendere decisioni, ma ormai scossa senza speranza dallo stesso peso della sua forza, Dalal Suleiman del carattere di Yusdra coglie soltanto l’aspetto rabbioso, perdendo l’occasione di esplorare altri e ben più interessanti elementi psicologici e sociali che il personaggio pure offriva.
Tra le parole e la musica, eseguita in scena da Marzouk Mejri, il viaggio alla ricerca dell’identità aggiunge qualche spunto di riflessione (“Che stupidaggine misurare la vita con il tempo, gli anni aggiungono soltanto una spanna alla terra di nessuno”) che cerca di andare oltre il fattore principale della nostalgia per il deserto e per il popolo, ma in definitiva il monito dell’esordio (ricordare e rispettare le proprie origini), pur se con svolgimenti appesantiti dalla presenza di un solo punto di vista, per di più alquanto convenzionale, resta la collocazione più convincente della narrazione.