Continua il viaggio che vede la Fondazione Teatro La Fenice portare in scena nella ‘piccola’ sala del Teatro Malibran le farse giovanili di Rossini. E dunque, dopo aver presentato “L’Inganno felice” e “L’occasione fa il ladro”, proposte rispettivamente a febbraio ed ottobre dell’anno scorso, è stavolta il turno de “La cambiale di matrimonio”, il primo dei cinque brevi lavori che il Pesarese compose tra la fine del 1810 e gli inizi del 1813 per il San Moisé, sala veneziana allora tradizionalmente rivolta al genere leggero. “La cambiale di matrimonio”, approdata in scena il 3 novembre 1810 insieme alla dimenticata “La vera gratitudine” di Farinelli, si può considerare l’esordio teatrale del diciottenne Gioachino; e questo perché il dramma “Demetrio e Polibio”, di poco precedente, era destinato all’uditorio privato dei Mombelli, attivissima famiglia di artisti teatrali. Non deve stupire però che il genio rossiniano si riveli con una partitura interessante, ma non memorabile, perché “La cambiale di matrimonio” altro non è che un utile cimento di apprendistato con il quale farsi conoscere e, in un certo senso, tastare il terreno: né più né meno come qualche anno dopo accadrà con “Adelson e Salvini” di Bellini, oppure con l’“Oberto” di Verdi.
A quei tempi, quando un soggetto in teatro funzionava, non c’era scrupolo che tenesse, né diritti d’autore da far valere. Il compositore napoletano Carlo Coccia aveva già presentato a Roma nel 1807 una sua versione musicale (in verità poco fortunata) de “Il matrimonio per lettera di cambio” , il cui libretto ricalcava pari pari una commedia abbastanza nota ai pubblici di mezza Italia, senza citarla. L’aveva scritta nel 1790 il piemontese Camillo Federici (pseudonimo di Giovanni Battista Viassolo), il quale abbandonata prima dei trent’anni la carriera d’attore e ritiratosi a Padova scrisse molto per il teatro, vedendo però spesso recitare - e talora persino pubblicare da editori poco scrupolosi - i propri lavori senza che il suo nome fosse citato in epigrafe. Allora il Federici era un autore di gusto ancora goldoniano – di quel grande, anzi, si faceva vanto di essere l’erede – ed era stipendiato dalla compagnia Pellandi che si esibiva sulle tavole del Teatro di Sant’Angelo in Venezia, consacrate alla prosa; curiosamente suo figlio Camillo Federici, magistrato di carriera nella città lagunare, sarà poi l’autore del dramma in 5 atti “Il paggio di Leicester” rappresentato a Napoli nel 1813, fonte diretta del libretto di un altro famoso lavoro rossiniano , “Elisabetta, regina d’Inghilterra”. Ad ogni modo, del divertente soggetto de “La cambiale” si ricordò vent’anni dopo Gaetano Rossi, che ritagliò per Rossini uno snello e vivace libretto; un ‘picciol testo’ nel quale cercava di prendere le distanze da certe formule comiche ormai ripetitive e consunte, elaborando una base solida per destare la fantasia e l’estro del giovanissimo compositore. Il lavoro non conobbe fortuna fuor della città, sorte che tra le farse veneziane capitò solo a “L’inganno felice”, con un decennio buono di giri per l’Italia; ma in questo caso siamo in presenza di una partitura più articolata, e che si avvicinava al fortunato genere del “pièce à sauvetage” che nella “Gazza ladra” troverà il suo vertice rossiniano. Pure la partitura qualche pregio lo possiede, anche perché vede per la prima volta in azione un thopos tipicamente rossiniano, il faccia a faccia di due bassi di diverso carattere e caratura. Da una parte Tobia Mill, carattere tirannico, antipatico e pure un po’ stolido, tipico «basso caricato» dal canto sillabico e dalla tessitura più alta, decisamente baritonale; dall’altra l’americano Slook, più accomodante e bonario, sorta di «buffo nobile» che gravita maggiormente sui centri: una interazione, la loro, che desta l’ilarità e il divertimento del pubblico, fine ultimo ed esclusivo di questo genere.
Per realizzare questo articolato ciclo rossiniano la Fondazione Teatro La Fenice ha messo in piedi una bella collaborazione con i poli veneziani di formazione artistica (l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio Benedetto Marcello e l’Università di Lettere Ca’ Foscari) per dare concretezza ad un modello produttivo – un master in acting, praticamente - che basandosi sull’organizzazione produttiva del teatro fornisca a giovani promettenti la possibilità di esprimersi e formarsi professionalmente, attraverso un lavoro di concreta realizzazione teatrale. Il progetto è coordinato da Bepi Morassi, e vede la direzione di noti registi nostrani; ma tutto l’apparato visivo (scene, costumi e luci, dall’ideazione sino alla realizzazione materiale) era nelle mani di alcuni studenti della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Quanto al Conservatorio Benedetto Marcello, la sua orchestra ed alcuni allievi delle classi di canto si alterneranno in alcune recite all’Orchestra de La Fenice, e alla compagnia di giovani interpreti formata ad hoc dalla Fenice stessa nell’ambito dell’Atelier Malibran. Perché due sono le tornate di recite: la prima a marzo, ed è quella di cui parliamo ora, con la concertazione di Stefano Montanari e l’Orchestra della Fenice; la seconda, ad aprile, vedrà invece Giovanni Battista Rigon dirigere la compagine orchestrale ed una selezione di allievi del Conservatorio veneziano.
Per la voce della Rosa Morandi, primadonna scritturata per la stagione del San Moisé, Rossini scrisse una prima pagina dai tratti virtuosistici e ricca di sfaccettature, «Vorrei spiegarvi il giubilo», al fine di esprimere la gioia della giovane Fannì nell’apprendere di poter infine convolare a nozze con il suo amato. Marina Bucciarelli l’abbiamo già apprezzata ne” L’inganno felice” dell’anno scorso, e in questa nuova occasione riconferma la sua versatilità scenica e la indubbia bravura sopranile, specie in una bella e fresca pagina dove le agilità le sono riuscite flessuose e ben tornite. Omar Montanari (Tobia Mill) e Marco Filippo Romano (Slook) formano una formidabile coppia senatoriale, recitando benissimo e cantando ancor meglio, con fine humour ed adeguata proprietà di stile; il baritono Armando Gabba e il soprano Rossella Locatelli sono una perfetta coppia di servitori (Norton e Clarina), intervenendo sempre a proposito. Qualche debolezza e povertà di colori si è avvertita nell’unica voce tenorile, quella dell’innamorato Edoardo Milfort interpretato da Giorgio Misseri.
Stefano Montanari ha condotto in porto la sua concertazione procedendo con naturalezza e molta leggerezza – ottenuta anche nella compatta ed asciutta Sinfonia – ed imboccando il giusto indirizzo interpretativo. Da elogiare anche la prontezza e l’attenzione con le quale ha agevolato il compito delle voci sul palcoscenico.
Di grande effetto l’impianto che è stato offerto agli spettatori (a firma di Stefano Crivellari, scene; Federica Miani, costumi; Sara Martinelli, costruzioni; Elisa Ottogalli, luci; Riccardo Longo, attrezzeria), un apparato che mostra imponenti scaffali pieni di stoffe, sovrastati da grandi e variegate strisce di tessuti appesi, a rammentare l’attività mercantile di Tobia Mill; la vicenda era immersa in un pieno sapore ‘biedermeier’, in una Venezia connotata dalla presenza dei gondolieri che portano alla meta Slook; a dare colore ed allegria, le maschere della commedia dell’arte – Pantalone, Arlecchino, Colombina Balanzone, e un pugno di Pulcinella in veste d’agilissimi lacchè. Mettetevi di giunta la spiritosa regia di Enzo Dara, che sa mettere a frutto la sua notevolissima esperienza teatrale impostando uno spettacolo frizzante e scorrevole, trattato con felice arguzia e fine senso comico; ed avrete così la ricetta di uno spettacolo praticamente perfetto.
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