Alla Deutsche Oper una nuova produzione dell'opera di Strauss affidata alla regia di Claus Guth, uno spettacolo difficile ma affascinante che scava nei meandri della psiche.
Alla Deutsche Oper di Berlino, in occasione di una settimana interamente dedicata al teatro musicale di Richard Strauss, accanto a Elektra, Rosenkavalier e le rare Elena egizia e L’amore di Danae, è andata in scena la nuova produzione di Salome che Claus Guth ha firmato per l’ente berlinese.
Claus Guth, con l’apporto drammaturgico di Yvonne Gebauer e Curt Roesler, ambienta la vicenda in epoca contemporanea, negli anni ’50 (come le scene e costumi di Muriel Gerstner lasciano ben intuire) e inscrive la vicenda nella sfera dell’immaginario di Salomè che mette in scena le sue fantasie perverse. La regia di Guth è intrigante ma molto enigmatica e di non immediata lettura e lo spettatore viene posto, non senza disagio, in una situazione voyeuristica col compito di trovare una chiave di lettura. Il sipario si apre su di una scena buia e opprimente (sempre suggestive le luci di Olaf Freese) e vediamo in un interno claustrofobico dalle pareti rivestite di legno una Salomè in camicia da notte da educanda che fa sedere a un tavolo due manichini, Erode ed Erodiade, mentre delle bambine, una declinazione di Salomè in miniatura, si muovono sulla scena per scatenare il mondo interiore della protagonista. Da un cumulo di vestiti emerge, come un prigioniero michelangiolesco, Jochanan, di cui si vedono bianchi arti che si tendono in uno spasimo e il bianco torso nudo. L’apparizione di Jochanann seminudo eccita la fanciulla e ne risveglia la perversione e Salomè traveste il profeta da Erode, il patrigno che nell’infanzia ha forse abusato di lei e che ora vuole dominare e punire.
La scena progressivamente si illumina e svela un elegante negozio di abiti maschili disposto su due piani dove si muovono fra giacche appese, cravatte e manichini, commessi imperturbabili alle dipendenze di Erode, ovvero il proprietario del negozio. L’elegante ambientazione anni ’50, peraltro ricorrente nel teatro di Guth, contribuisce a dare alla vicenda un perbenismo di facciata dietro a cui spesso si annida un morboso male oscuro. Nessuna nudità nella danza, qui affidata da Salomè, autentica demiurga che conduce il gioco, ai suoi sei doppi infantili, di età e altezza diverse, che, come marionette, fa danzare a turno con Erode e che Erodiade “è costretta” a guardare per comprendere la natura del trauma. Ma non c’è nulla di esplicito, l’abuso resta velato: sono piuttosto le perversioni dello spettatore a caricare la danza di implicazioni sessuali e simboliche. Salomè taglia la testa a un Jochanan-manichino e, seppur Erode ne ordini la morte, se ne va via libera apprestandosi a uscire dal negozio. Ma che cosa significa? E’ finita la fase di segregazione? Con l’uccisione di Jochanan/Erode si è liberata del trauma? O più banalmente il tempo della rappresentazione ha coinciso con quello della fantasia?
La regia di Guth richiede al pubblico estrema attenzione e solo a rappresentazione avvenuta, a seguito di un’attenta riflessione, si ricompongono i tasselli dell’enigma e tutto torna, ma in sede di rappresentazione l’impostazione registica inibisce la fruizione immediata di un’opera che, per musica e intreccio, va alla “pancia” dello spettatore, per cui bisognerebbe riavvolgere il nastro e rivedere tutto di nuovo. Se si può obiettare l’idea, non si può che lodare la cura scenica di un allestimento di livello per quanto riguarda movimento e recitazione di protagonisti e comprimari.
Note positive sul cast a partire dalla Salome di Allison Oakes, una piacevole rivelazione, che ha sostituito la prevista Catherine Naglestad: la cantante è risultata molto intensa e credibile sul piano scenico e ha sostenuto senza esitazione la terribile tessitura dimostrando un’eccellente dizione; si apprezza l’omogeneità dell’emissione e la capacità, nonostante un mezzo importante, di piegarsi al mutevole fraseggio straussiano. Michael Volle è uno dei baritoni tedeschi più interessanti della sua generazione e il suo Jochanan tonante dalla vocalità scolpita emana autorevolezza e forte carisma erotico. Conturbante e dalla articolazione chiara l’Erode di Thomas Blondelle. Jeanne-Michèle Charbonnet è una Hérodiade carismatica e al tempo stesso caricaturale come si addice a un “mostro”. Lirico e ricco di squarci di dolcezza il Narraboth di Attilio Glaser, sensibile il paggio di Annika Schlicht, decisamente ben risolte le parti di fianco sia da un punto di vista scenico che musicale. Tesa e vibrante la direzione musicale di Alain Altinoglu attenta a sottolineare le varietà timbriche della partitura e la differenza di spessori sonori.
Calorosi e prolungati applausi per tutti alla fine per uno spettacolo che stimola la riflessione.