Teatro

Una star si aggira per l'Europa

Una star si aggira per l'Europa

Bernard-Henri Lévy legge il suo testo "Hotel Europe", immaginando di stare chiuso in una camera d'albergo di Sarajevo, alla ricerca di un senso da dare ad un discorso sull'Europa.

Manca un'ora al discorso per le commemorazioni dello scoppio della guerra del 1914: lo scrittore chiuso nella camera di un albergo di Sarajevo (dove giù fu ospitato vent’anni prima) non riesce a decidere la linea del suo intervento, e fra improbabili interruzioni occasionali rimugina sulla storia ed il senso di una Europa il cui epicentro di incapacità politica sembra collimare con le vicende balcaniche, fra quelle che vengono descritte come contraddizioni, pavidità, demoni, alla ricerca di una strada per trovare -o ritrovare- l’identità del Vecchio Continente.

Il giornalista, imprenditore e filosofo francese Bernard-Henri Lévy (BHL nelle cronache di mondo) porta in scena se stesso, leggendo il suo testo in lingua francese con sottotitoli in italiano nel Teatro Caio Melisso - Spazio Carla Fendi di Spoleto sabato 27 giugno: un happening, prima ancora che uno spettacolo, per la sua presenza in scena dopo aver attraversato per anni l'Europa a discutere e scrivere, forse perchè si è ricordato, come in una circostanza ha affermato, di ciò che sosteneva Sartre, ovvero che il genere di azione per eccellenza è proprio il teatro. Non avvezzo a questa forma di comunicazione, come invece è di tante altre, la scelta scenica obbligatoria è quella della lettura, sebbene dissimulata sotto le apparenze di un testo da compilare sul suo computer portatile (dal marchio rigorosamente occultato), che perciò tiene sempre nelle mani e che non abbandona mai, nemmeno quando cammina o si cala in una vasca da bagno. Vuota, naturalmente.

In tale mise-en-scène, un monologo solitamente affidato a Jacques Weber, sporadicamente si mostra anche bravo ad autointerpretarsi, ma certo nulla vuole far pensare ad una recitazione se non accennata, ché non è certo questo, il senso, quanto lo è invece il lato politico di un discorso che ha il suo aspetto migliore nel tempismo con il quale viene presentato, dallo scorso anno, ad un pubblico continentale che si sta trovando a fronteggiare un'idea di Europa davvero difficile da risolvere, fra nazionalismi esasperati, separatismi e razzismi di varia specie che tutto fanno tranne che rassicurare sul futuro della terra di Dante, Goethe e Václav Havel.

Nello svolgersi del discorso di Hotel Europe, particolare enfasi viene riservata al mito di Europa, principessa fenicia rapita da Zeus, mentre il momento migliore di tutti è senz'altro quello nel quale si lascia andare ad un aspetto poetico attraverso il quale sembrano fondersi Eros e Thanatos, ovvero i ricordi di amanti e di baci misti a quelli delle rovine e delle città in cui furono, mettendo significativamente a contatto il Bello ed il Male.

Ma sono le sue certezze, quelle stesse che lo hanno visto attivista fin troppo fervente in vari momenti contro alcune realtà identificate più o meno tradizionalmente come questo o quel Male, ad essere l'aspetto più difficile da accettare: lo scrittore chiuso nella sua stanza, all'approssimarsi dell'ora del discorso, freme per trovare una ispirazione adeguata, ma l'inanellamento di concetti che emerge, di fronte alla complessità, ai mosaici delle culture e delle civiltà europee, dà l'impressione, in più di una occasione, di un volo enfatico e superficiale, vestito di filosofia nel suo abito buono, quello da sera e da salotto che rappresenta un rassicurante giochino altoborghese.

Certo, anche se questo più che un merito suo è un demerito della società, meglio che in qualche modo sempre se ne parli, meglio che si ricordi che “ci sono situazioni in cui è coraggioso fuggire”, e piuttosto che scivolare nel nulla digradante; ed è sempre meglio anche ricordare, come fa, un certo signor Edmund Gustav Albrecht Husserl, filosofo e matematico austriaco naturalizzato tedesco, padre della fenomenologia, il quale separava da un lato “gli ossessionati dai Natali e dalle radici, ovunque esse siano”, e dall'altro “l'eroismo della Ragione”, pur sempre ricordando a ragione che anche lui era mosso da personalismi (la sua guerra privata e pubblica contro Heidegger); ma si trattò di una rivalità da prendere anche a pretesto ed emblema: “Ci vuole una dose di Husserlité”, è infatti una delle sue frasi ad effetto, un auspicio pure condivisibile che tuttavia non basta a diradare le nubi ed a trovare lo spunto decisivo per il discorso, finchè ecco l'illuminazione: “Bisogna trasferire la capitale dell'Europa a Sarajevo”, perché in tal modo una goccia di Sarajevo potrebbe essere instillata in ogni documento, ogni atto, ogni politico dell'Unione Europea: un finale che almeno trova così il suo effetto, lasciando strategicamente in discesa il commiato evocativo dal suo pubblico.