Riportare in vita talune famose messe in scena del passato è una moda invalsa negli ultimi anni. Talvolta si fa per la curiosità di riscoprire spettacoli che fecero un tempo notizia, come nel caso della “Aida” di Ettore Fagiuoli che portò esattamente cent’anni fa per la prima volta la lirica nel catino dell’Arena di Verona; molto spesso invece credo lo si faccia per l’opportunità di alleggerire i bilanci evitando nuovi e costosi progetti, cosa di per sé affatto biasimevole.
Ad esempio, nel 1998 Ettore Rondelli ricostruì per l’Opera di Roma, in prossimità del centenario di vita del capolavoro pucciniano, quelle scene che Adolfo Hohenstein aveva disegnato per la “Tosca” che, il 14 gennaio del 1900, aveva visto la luce proprio sul palcoscenico di quello che allora si chiamava ancora Teatro Costanzi. Per l’occasione gli accurati e bellissimi costumi portavano la firma di Anna Biagiotti, mentre la regia era nelle mani di Mauro Bolognini, il quale transitava per la prima volta dai set cinematografici alle tavole teatrali; e quello fu per il maestro toscano l’avvio di una seconda, felice carriera artistica.
Vero è che evitando eccessivi scrupoli filologici, nella sua ricostruzione Rondelli modificò un poco l’aspetto del terzo atto – basta vedere le immagini d’epoca - eliminando una sgraziata casamatta a sinistra, e disegnando delle scalinate prima assenti per conferire movimento ed ariosità agli spalti del ‘suo’ Castel Sant’Angelo; innegabile comunque che il risultato così conseguito appaia nettamente migliore dell’originale. Dopo quella fortunata riedizione romana questo spettacolo mi risulta sia stato più volte ripreso; ultimamente, nel luglio 2010 al Carlo Felice di Genova con la regia di Renzo Giaccheri, e la coppia Daniela Dessì e Fabio Armiliato in veste di protagonisti.
In questa primavera del 2013 tocca ora al Verdi di Trieste con una nuova regia di Giulio Ciabatti.
Stiamo parlando insomma d’uno spettacolo ben noto agli appassionati, qui ricostruito – questa la mia impressione - forse un po’ sbrigativamente, nel quale le storiche quinte di Hohenstein la fanno da padrone prestandosi a luci un po’ crepuscolari, ad un generale senso di indefinito, ad una lettura abbastanza intimistica e comunque nettamente tradizionale della vicenda. E in questo contesto Ciabatti ha svolto un discreto lavoro complessivo, dando senso al racconto anche se, mi pare, si indulgesse spesso ad una certa routine e soprattutto ad una platealità gestuale che si accordava alla storicità dell’allestimento. Al riguardo, permettetemi una breve noterella, riportata nel programma di sala. Il recupero presso alcuni collezionisti privati di numerosi bozzetti ed appunti dei fratelli Giuseppe e Pietro Bertoja, scenografi veneziani molto noti ed attivi per un periodo assai a lungo, all’incirca dagli anni Quaranta dell’Ottocento sino ai primi del Novecento, ha fatto emergere una grande quantità di materiali ancora in gran parte da studiare. Tra questi, lo studioso Gianluca Macovez ha reperito e reso noti alcuni disegni che riguardano appunto la prima romana di “Tosca”. Infatti, pur ritiratosi per l’età dall’agone produttivo, Pietro Bertoja prestava volentieri consulenze richiestegli da numerosi musicisti – tra cui anche Puccini – che gli richiedevano idee e bozzetti da consegnare ai vari teatri, al fine di rendere ben chiaro il risultato scenico desiderato. Che il maestro di Lucca gli avesse richiesto delle tracce sceniche per “Manon Lescaut” e “La bohéme”, era cosa già nota; ma che questo si fosse verificato anche per la primissima “Tosca” è emerso solo di recente, cioè dopo che Macovez ha potuto confrontare le foto della prima romana con una serie di schizzi inediti che descrivono sia i giochi prospettici delle volte di Sant’Andrea della Valle sia la sommità di Castel Sant’Angelo, compresa la botola, la casamatta e il lontano prospetto di San Pietro collocati poi in scena dallo Hohestein. Ed è quindi evidente che questi abbia avuto l’incarico di dare concretezza visiva alle ‘desiderata’ di Puccini, mediate dalle felici intuizioni del vecchio Bertoja.
Premesso tutto questo, sono dell’opinione che i vertici triestini potessero prendere in considerazione per questa produzione anche altri allestimenti disponibili, magari un po’ meno datati di questo. Magari proprio quello molto stimolante visto sempre qui nel 2008, proveniente da Ancona e tutto a firma di Giovanni Agostinucci.
Venendo infine alla musica, si aveva l’impressione che l’asciutta e tesa direzione di Donato Renzetti incalzante nel seguire il filo narrativo e molto attenta alla resa dei colori, trovasse bella intelligenza con gli interpreti ma non sempre adeguata risposta nell’Orchestra del Verdi, che mi è parsa in certi momenti incerta nel suo procedere. Nell’insieme, comunque, potente era l’effetto di una concertazione molto penetrante e di intensa, grandissimo effetto teatrale, che toccava tutte le corde diverse di una partitura cangiante.
Nella generalità delle recite nei ruoli principali erano impegnati Alexia Voulgaridou, Alejandro Roy e Roberto Frontali; ma in questo appuntamento pomeridiano del sabato al quale siamo intervenuti erano invece presenti Alisa Zinovjeva, Mauro Malagnini e Alberto Mastromarino: una giovane promessa, e due colonne del nostro panorama lirico.
Già presente come Gulnara nel “Corsaro” triestino di qualche mese fa, il soprano lettone si disimpegnata abbastanza bene mostrando bella presenza scenica, che ha catturato la simpatia del pubblico, ma ancora insufficiente carisma personale e vocale. Le sue parole non prendono sempre giusto peso: pensate alla carica sensuale di «Non la sospiri la nostra casetta» e di «Senti effluvi di rose», al maceramento di «Ed io veniva a lui tutta dogliosa», oppure all’abbattimento morale di «Vissi d’arte», resi a metà. E psicologicamente la Zinovjeva non sceglie da che parte stare: se fare una eroina sentimentale e commovente, o passionale e carica di sensualità; e resta impelagata a mezzo. Per finire, la sua parrebbe voce da lirico puro più che soprano drammatico, e quindi non possiede – almeno al momento – il giusto spessore, né la solida luminosità degli acuti che ci vorrebbe per una Tosca del tutto credibile.
Malagnini ha affrontato con onore il suo impegno, e se nel suo Mario si avverte una certa mancanza di varietà espressiva - dote che non è nel suo carattere - notevole come sempre è parsa la facilità e la solidità della linea vocale messa in campo, nonché la bellezza e la pienezza del timbro; e inoltre viaggia a suo agio sulla linea vocale ed evita intelligentemente le facili platealità. Non servirebbe dunque dire che i due suoi momenti solistici sono stati giustamente gratificati di calorosi applausi. Quanto a Mastromarino, non saprei quante volte abbia vestito i panni di Scarpia, ruolo che gli è decisamente congeniale: anche qui è risultato intriso di forte espressività, e scenicamente vividissimo. Magari certi suoni sono un po’ approssimativi, ma il personaggio gli riesce ricco di sfumature, dal tono di controllata, insinuante perfidia del «Tosca gentile, la mano mia..» sino alla virulenza esagitata e lussuriosa di «Quest’ora io l’attendeva!».
Paolo Rumetz è stato un buon Sagrestano (un po’ gigione nella gestualità, in verità, ma qui c’entra ahimé la regia), Gabriele Sagona interpretava dignitosamente Angelotti, Nicola Pamio e Christian Starinieri impersonavano bene Spoletta e Sciarrone. Il carceriere era Giuliano Pelizon, il pastorello Erica Benedetti. Bene il Coro del Verdi, diretto da Paolo Vero e coadiuvato dai Piccoli Cantori della Città di Trieste preparati da Cristina Semeraro.
Recita affollatissima, come quelle precedenti e seguenti, e palese gradimento di pubblico.
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