Non basta la cornice di San Simone per suggestionare uno dei viaggi più importanti della letteratura. Regia a tratti noiosa e senza il pathos che il testo epico trascina con se.
Lo spettacolo di Emma Dante era uno dei momenti attesi del Festival dei Due Mondi di Spoleto, con tanto di aggiunta di date per il tutto esaurito e con la curiosità di vedere l’epilogo del percorso nato con “Movimento n.1” e diventato il viaggio completo con Odissea A/R.
Una recensione faticosa da scrivere per diversi motivi, primo fra tutti il coinvolgimento in scena di allievi attori. Seconda considerazione è il percorso che la drammaturga e regista Emma Dante ha maturato in questi anni di carriera, percorso che crea delle aspettative piuttosto alte quando si tratta di assistere ad un suo lavoro. Rispetto ai primi lavori proposti e fatti conoscere al pubblico, questo di Odissea A/R si può considerare uno dei più noiosi, tra i ‘già visti’ e che, sia a livello emotivo che intellettivo, non lascia traccia se non la volontà, dopo pochi minuti di spettacolo, di uscire fuori dalla sala.
Purtroppo non bastano l’energia degli allievi attori della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo (che lodo per la capacità con la quale hanno gestito il palco essendo un gruppo in formazione), una bacinella nella quale avremmo dovuto vedere l’arteficio del mare, i canti e gli esercizi di movimento scenico per esaltare l’eroe omerico e le sue imprese. Tutto questo non basta perché questa volta Emma Dante ha abbandonato è il suo lato istintivo, quello furioso che avrebbe mantenuto l’epico nel suo adattamento, quello della Trilogia della famiglia siciliana dove la rabbia ancora fresca e giovane emergeva. Un’Odissea molto concettuale alla quale il primitivo viene relegato e affidato al dialetto, dove Zeus è un vanesio e Penelope una idealista repressa. Rimane Telemaco forse l’unica speranza e proposto a tratti fedele all’immaginario del personaggio (interpretato tra l’altro da un bravo Alessandro Ienzi) ma che non basta ai fini della resa di un lavoro corale.
Le storie si trasformano e si adattano ad un pubblico contemporaneo, ma bisogna fare molta attenzione a far diventare commerciale un’operazione che all’apparenza presenta ‘il diverso, il nuovo’ ma che di fondo non onora in nessun modo quello che il testo vuole significare.