Ascoltare dal vivo Ute Lemper è un’esperienza davvero unica, che genera un forte impatto e un coinvolgimento profondo. L’artista tedesca è dotata di una voce straordinaria e la utilizza con sensibilità e raffinatezza, esplorandone le risonanze attraverso una variegata gamma di timbri e di effetti: dal sussurro lieve del quasi-parlato al cri acuminato. Prima ancora che una suggestiva espansione dei significati del testo, il suo canto è una meditazione sulla componente fonico-acustica della parola, che esalta la scabrosità delle consonanti e dà vita a densi grumi sonori. E l’abilità tecnica – evidente nel costante controllo dell’intonazione, nell’impeccabile gestione del cambio di registro, nell’esplorazione sicura di un’ampia estensione vocale – non è virtuosismo gratuito o compiacimento manieristico, ma efficace veicolo dell’espressione e dell’emozione.
In uno degli appuntamenti musicali più prestigiosi del Napoli Teatro Festival Italia, il San Carlo, letteralmente gremito, ha ospitato uno splendido recital della cantante, che ha tracciato un affascinante itinerario vocale tra Francia, Germania e Stati Uniti sulle tracce di Edith Piaf, Kurt Weill e George Gershwin. Ad accompagnarla c’era l’orchestra del teatro che, sotto la guida di Pietro Mianiti, si è rivelata perfettamente a proprio agio con un repertorio atipico.
Il programma ha messo in luce la duttilità dell’interprete, capace di attraversare stili diversi e di conferire a ciascun brano uno specifico colore. Tra i momenti più alti della performance meritano una segnalazione l’irruenza disperata di Padam, l’ironia malinconica della Saga of Jenny, l’intensità di Ne me quitte pas.
Il pubblico napoletano è rimasto stregato dalla bravura della Lemper, dalla sua fisicità sinuosa, dalla sua comunicatività empatica. Lo scroscio degli applausi l’ha costretta a un duplice, apprezzatissimo bis.