Teatro

VICENZA: OLIMPICHE NOZZE DI FIGARO

VICENZA: OLIMPICHE NOZZE DI FIGARO

L’evento centrale delle «Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza», festival giunto nel 2013 alla sua 22ma edizione e dedicato quest’anno al tema «Mozart e la Spagna», è stata la riproposta dell’opera mozartiana forse più amata dal pubblico, “Le nozze di Figaro”. Come di consueto, il direttore artistico delle «Settimane» vicentine - Giovanni Battista Rigon - non ha inteso presentare una edizione ‘normale’ del titolo operistico in cartellone, bensì una sua versione ‘diversa’, possibilmente sconosciuta agli appassionati. Restando in ambito mozartiano, qualche anno fa ad esempio toccò al “Flauto magico” con i versi italiani del livornese Giovanni De Gamerra, quale venne presentato al Teatro Nazionale di Praga nel 1794 (la registrazione è reperibile in 2 CD Nuova Era). Nel 2011 fu la volta del “Don Giovanni” nella sua prima versione praghese del 1787; l’anno scorso la prima moderna assoluta de “Il ratto dal serraglio" volto nel 1838 in lingua e gusto italiani da Pietro Lichtental per il Teatro alla Scala, senza però mai esservi andato in scena.
Ora è il turno di una partitura manoscritta riemersa dall’inesauribile archivio del Conservatorio napoletano di San Pietro a Majella, dove per “Le nozze di Figaro” sono previsti recitativi accompagnati dall’orchestra – i soli archi, per la precisione - anziché «a secco»,  cioè col clavicembalo: una prassi in uso nella capitale borbonica, seguendo la moda parigina – vi si attenne anche Rossini nel suo periodo napoletano, da “Elisabetta” alla “Zelmira”- ma sicuramente ignorata dal resto dell’Italia. Due volte questo capolavoro del Salisburghese apparve sulle scene partenopee, nel marzo 1814 al regio Teatro di San Carlo, e poi nel maggio 1815 al Teatro del Fondo. Ma nel primo caso la parte del Conte di Almaviva trasposta per l’occasione in alto venne sostenuta dal famoso tenore Manuel Garcia, nel secondo ricondotta alla corretta chiave di basso per Michele Benedetti, futuro grande interprete rossiniano: quindi la partitura recuperata da Rigon per questa ripresa vicentina, che prevede proprio tale opzione, si deve giocoforza ricondurre a questa più tarda congiuntura. Curiosamente, la versione de “Il flauto magico” di De Gamerra testè citata, non solo riscriveva in lingua italiana il testo tedesco dello Schikaneder, ma convertiva pure i dialoghi recitati d’uso in ogni singspiel in recitativi con cembalo. Operazione insomma inversa a quella dell’ignoto compilatore napoletano, segnata da grande fortuna dato che, in tale veste  “Il flauto magico” furoreggiò e sopravvisse a lungo in molti teatri europei; mentre dopo le rappresentazioni dell 1814-1815 a Napoli si mise da parte il capolavoro di Mozart.
Questione dei recitativi a parte, “Le nozze di Figaro” che ci sono state proposte nella sala del Teatro Olimpico sono le stesse di sempre; e noi continuiamo a preferire nei recitativi il sostegno del cembalo. Anche perché i modestissimi interventi degli archi di questa versione napoletana – qualche accordo buttato giù da un qualsiasi maestrino, verrebbe da dire – lasciano aleggiare le voci in una desolata solitudine armonica. Bastava ascoltare il passaggio da questi ultimi al pregnante sostegno mozartiano per le meditabonde riflessioni di Figaro che prendono mossa da «Bravo, signor padrone!» in poi, per avvertire una stratosferica lontananza di gusto e di stile.
La messa in scena di Antonio Petris segue la linea registica già avviata ultimamente all’Olimpico con “Don Giovanni” e “Ratto del serraglio”, con l’orchestra al centro dell’imponente proscenio palladiano. In questo spettacolo, avendo a destra la stanza della Contessa con un bianco sofà e un tavolino da toilette, davanti una dormeuse blu per la camera degli sposi – buona a nascondere Cherubino o per far pisolare Figaro – a sinistra un tavolino e quattro sedie, sullo sfondo la poltrona manageriale del Conte. Mobili di modernariato, vien da dire, gusto anni 50-60 del secolo scorso, consegnando un taglio visivo rafforzato dalla scelta degli abiti, firmati da Marco Nateri, che aiutanoa a spostare la vicenda ai tempi nostri. Naturale quindi che Figaro, in questa messinscena curata da Petris con molto garbo, svelta naturalezza ed arguta ironia, entri in scena sfogliando un grosso catalogo di mobili, e mostri a Susanna come starebbe bene una camera matrimoniale, presumibilmente in offerta speciale…e magari pagabile a rate. Solo un dettaglio in questa regia non mi è andato a genio: l’aver fatto di Cherubino una specie di rapper un po’ strafottente (spunto oltremodo non affatto nuovo) facendogli cantare le sue canzonette con pose hip-hop, e togliendogli in tal modo il feeling ed i naturali turbamenti propri di un adolescente in piena tempesta ormonale. Per il resto, la commedia scorreva vivace e divertente, giocando bene le carte di un’accurata recitazione; prerogativa fondamentale, perché il pubblico sta lì a tre passi dagli interpreti.
Il giovane baritono napoletano Filippo Morace – impagabile Osmino nel “Ratto” dell’anno scorso - ha confermato di essere un vero, grande artista: vocalmente ineccepibile – timbro morbido, pieno e luminoso, padronanza tecnica ineccepibile - sembra nato per fare Figaro per la padronanza scenica e musicale messe in campo. Mettiamoci la naturale simpatia, ed il conto è presto fatto. La poco più che ventenne soprano vicentino Giulia Bolcato era la sua Susanna: sta muovendo i primi passi nel repertorio (è stata di recente Fanny nella “Cambiale di matrimonio” al Teatro Malibran di Venezia) e la grazia e freschezza non le mancano; autorevolezza e maggiore sicurezza verranno di sicuro col tempo. Bel colore di voce, fraseggio insinuante e i giusti tratti di altera nobiltà (sconfinamenti erotici permettendo…) erano i tratti distintivi del Conte di Luca Dall’Amico; il soprano Giacinta Nicotra vestiva i panni elegantissimi della Contessa: il colore non è forse ideale, tendendo allo scuro; ma la linea di canto si svolge morbida e compatta, e la patina di una tenera melanconia scendeva su ogni sua parola. Modesto e senza nervo (musicalmente) il Cherubino di Margherita Settimo, figura però di per sé traviata da una sbagliata scelta registica; perfetti Claudio Levantino nel ruolo di Don Bartolo, e Candida Guida in quello di Marcellina; bene Gian Luca Zoccatelli nei panni di Don Basilio e Don Curzio, come pure Minni Diodati quale Barbarina; molto bravo in scena Alberto Spadarotto (Antonio). Corretti gli interventi del coro I Polifonici Vicentini, preparati da Pierluigi Comparin.
L’Orchestra di Padova e del Veneto era naturalmente amministrata da Giovanni Battista Rigon, dimostratosi ancora una volta direttore sempre sensibile, attento, competente. Il contesto generale di queste “Nozze”– cioè l’impianto scenico e registico – non potevano spingere verso languide magie d’atmosfera e trepidi notturni mozartiani; e allora la scelta di Rigon è istintivamente caduta su una concertazione luminosa, colorata, frizzante, che assecondasse il lato più comico e brillante della commedia di Beaumarchais, e che sostenesse a dovere una compagnia tutta di giovani in un irreprensibile e divertente gioco di squadra. Insomma, lucentezza e vaporosità profuse a piene mani. Peccato solo per un certo occasionale predominare degli strumenti sulle voci, inconveniente peraltro comprensibile avendo i cantanti che ti svolazzano intorno a destra e sinistra, e spesso ti cantano alle spalle.
Per ognuna delle quattro le recite in programma, un Olimpico sempre affollatissimo di pubblico festante.