Teatro

VIENNA, DON CARLOS

VIENNA, DON CARLOS

Vienna,  “Don Carlos” di Giuseppe Verdi

IL DON CARLOS  SOGNATO DA  KONWITSCHNY

Nell’anno verdiano Don Carlo, opera ostica e sofferta che ha stentato ad affermarsi nel repertorio, è una di quelle che appare più di frequente nella programmazione dei principali teatri (ora a Torino, a maggio a Londra e a Firenze, in estate a Salisburgo, in autunno alla Scala), segno di un cambiamento del gusto e dei tempi. A Vienna viene ora riproposta la versione originale francese in cinque atti in un’edizione di particolare interesse in quanto completa del balletto e degli otto brani che Verdi stesso tolse dalla partitura per ovvie ragioni di durata. L’ascolto risulta affascinante e ci rendiamo conto che non si tratta semplicemente di una versione francese del Don Carlo, quanto di un’opera (o meglio di un grand-opéra) diversa. Citiamo solo l’ampia scena corale in apertura in cui il popolo piange la miseria provocata dalla guerra, il maggiore approfondimento psicologico che hanno i duetti fra Philippe e Rodrigue, il lungo confronto fra Eboli e Elisabeth e il grande concertato dopo la morte di Rodrigue, il cui tema verrà riutilizzato da Verdi per il Lacrymosa del Requiem.

Alla Staatsoper è ora in scena il controverso allestimento di Peter Konwitschny che nel 2004 destò scalpore suscitando ammirazione e dissensi. Il regista tedesco sottolinea la componente claustrofobica della vicenda, ma lascia spazio a momenti gioiosi e fa presagire un happy end, preannunciato dalla piantina verde che all’inizio il frate/alias Carlo V pianta sul proscenio e che illuminata da una luce calda costituirà una sorta di speranza. Konwitschny infatti  ha voluto differenziare la “tinta“ cupa dell’opera inserendo dei momenti ironici e giocosi, a dimostrare, riprendendo forse la préface del Cromwell di  Hugo, che per rappresentare il reale comico e tragico devono convivere.

Dopo l’atto di Fontainebleau, ambientato in una scena aperta in quanto ancora all’insegna della “possibilità”, l’impianto scenico successivo (ideato da Johannes Leiacker) è costituito da tre pareti formate da pannelli bianchi modulari che chiudono la scena assolutamente vuota, creando un contenitore asettico e claustrofobico di marmorea freddezza. L’Escurial è una gabbia, o una tomba, in cui i personaggi in neri abiti secenteschi entrano ed escono attraverso basse aperture che li costringono a chinare il capo.
Una delle trovate più originali è quella di aver trasformato il lungo balletto in una divertente pantomima intitolata “il sogno di Eboli“. La Principessa, convinta di poter essere amata da Carlos, gli scrive un biglietto e si abbandona a una fantasticheria: spariscono le pareti bianche e dal fondo della scena avanza una sorta di scatola in cui vediamo ricostruito un interno borghese anni ’50 dalla tappezzeria floreale, cucina attrezzata, tinello e caminetto. Eboli è una giovane mogliettina che aspetta per cena il marito (Carlos) annoiato e triste (non si sa se per il lavoro o altro) ed i suoceri (Philippe e Elisabeth) che vuole conquistare con un favoloso arrosto. Ma tutto va storto, il tacchino brucia (meno male che  c’è   Posa - pony express a risolvere l’impasse portando le pizze) e, passata la falsa cortesia, si scatenano i veri sentimenti dei personaggi in una girandola irriverente dove  Don Carlos si mostra l’enfant terrible che è.

Un altro momento caratterizzante della produzione è come realtà e finzione s’intreccino nella scena dell’autodafè. Durante l’intervallo ripetuti e insistenti video-annunci anticipano l’arrivo dei Reali; tutti gli spazi della Staatsoper, scaloni, foyer, palchi, corridoi, platea, diventano una sorta di palcoscenico dove si mescolano pubblico e interpreti che,  sotto i flash dei fotografi e delle telecamere (ma ancor più dei telefonini del pubblico!) attraversano la platea per raggiungere il palcoscenico dove il coro è intento a festeggiare. Video sul palcoscenico offrono riprese sotto varie angolazioni dell’eventomentre in platea e sul palcoscenico vediamo sfilare gli eretici percossi dalle forze dell’ordine. L’idea diverte e disorienta lo spettatore che non sa più dove stare né dove guardare, ma ha il limite di distrarlo dall’architettura musicale della scena che ne risulta inevitabilmente banalizzata e si perde un po’ di magia nel vedere la voce del cielo nelle sembianze di una cantante platinata.
La regia è attenta a tradurre in modo leggibile  la concatenazione drammaturgica, per esempio funziona l’avere accompagnato la grande aria di Philippe II dalla presenza muta di Eboli, dapprima addormentata accanto al Re con cui sembra aver passato la notte, poi sua interlocutrice tragica e silenziosa e infine testimone dello scontro fra i due consorti; inoltre il duetto immediatamente successivo fra Eboli ed Elisabeth (qui ripristinato) alla luce di quanto precede acquista grande portata sul piano emozionale.

La versione proposta per poter risaltare appieno avrebbe avuto bisogno di un cast familiare con l’intonazione ed  il modo di scolpire la parola tipicamente francesi.
Del cast originale ritroviamo l’intensa e dolente Elisabeth de Valois di Iano Tamar, la voce è notevole per corpo ed estensione anche se presenta qualche disomogeneità.
Per un’improvvisa indisposizione di Nadia Krasteva il ruolo di Eboli è stato interpretato all’ultimo dalla giovane Laura Brioli: trattandosi di una regia particolarmente complessa la parte coreografica (sogno di Eboli, inizio del quarto atto) è stata doppiata da una danzatrice; tuttavia riteniamo che la cantante non sia ancora matura per un ruolo così impegnativo.
Coreani padre e figlio: Yonghoon Lee è un infante decisamente giovane e il fisico sottile e i delicati lineamenti asiatici contribuiscono a renderlo acerbo. E’ un Don Carlos infantile e insicuro, che esplicita il conflitto con il padre con forme di dispetto, poco eroico, talvolta giocoso, come quando si abbandona al riso o si mette a carponi come un cagnolino nel duetto dell’amicizia. La voce è di tutto rispetto, si piega con musicalità all’espansione lirica riuscendo a sostenere con  sicurezza il canto spiegato e per certi versi la voce così estesa e scura  stride con la figura efebica. 
Kwangchul Youn è un Philippe II inappuntabile, scenicamente autorevole come si conviene a un monarca e dalla voce morbida e duttile, ricca di sfumature e chiaroscuri.
Bene il Rodrigue di George Petean, oltre che per la dizione, per una voce omogenea e possente e la capacità di fraseggiare con grande nobiltà, non a caso  i duetti del secondo atto fra  Philippe II/Rodrigue sono fra i momenti musicalmente più riusciti della serata.
Le Grand Inquisiteur di Alexandre Moisiuc ha giusta gravitas e autorevolezza per la voce profonda e ben emessa. Gradevole il paggio Thibault di Juliette Mars, Dan Paul Dumitrescu è un monaco partecipe dalla bella voce scura. Non luminosa come dovrebbe la Voce del Cielo di Ileana Tonca.

Senza fuochi di artificio, ma comunque equilibrata e funzionale alla drammaturgia, la direzione di Bertrand de Billy. Ed è tale la bellezza di suono della compagine viennese, in particolare dei violini così morbidi e ricchi di colori, che si apprezzano tutte le nuances dello strumentale.
Ottima la prova del coro, sia da un punto di vista scenico che vocale, preparato da Thomas Lang.

Calorosi applausi per tutti da parte di un pubblico cordiale e numeroso.

Visto a Vienna, Wiener Staatsoper, il 13 aprile 2013

Ilaria Bellini