Teatro

VIENNA, La Dama di Picche

VIENNA, La Dama di Picche

Vienna, Wiener Staatsoper, “La Dama di Picche ” di Piotr Ilyich Tchaikovsky UNA DAMA DI PICCHE E DUE ASSI “O sto facendo un errore imperdonabile oppure la Dama di Picche sarà il mio capolavoro“: queste le parole scritte da Tchaikovsky al fratello mentre si accingeva a comporre con grande slancio l’opera tratta da una novella di Puskin, il cui protagonista, un outsider povero e appassionato, divorato dall’ambizione e “ diverso“, presentava analogie con la sua personalità e situazione. E l’opera è davvero un capolavoro (anche se non troppo frequentato per le innegabili difficoltà esecutive), caratterizzata da ardue tessiture vocali e da un’imponente partitura sinfonica, in cui coesistono pagine ricche di pathos e tensione melodrammatica frammiste a sonorità classiche da divertissement mozartiano. Alla Staatsoper è andata in scena una nuova produzione con regia della giovane Vera Nemirova, una prima particolarmente attesa per la direzione di Seiji Ozawa e il debutto nel ruolo a Vienna di Neil Shicoff, uno degli artisti più amati dal pubblico viennese. La scena di Joannes Leiacker è unica per tutti e tre gli atti: l’interno di un nobile palazzo grigio e screpolato, attraversato da una scalinata imponente e caratterizzato da un “enclave” vetrato dalle pareti opalescenti che rimandano immagini confuse, ma comunque intelligibili, di ciò che si svolge al suo interno. La scelta di una scena unica e priva di elementi naturalistici è discutibile in quanto viene meno la componente descrittiva caratteristica dell’opera, con un inevitabile scollamento fra l’aspetto visivo e quanto evocato dalla musica: “i giardini d’estate in un giorno di primavera“ sono letti di un dormitorio in cui drappelli di istitutrici svegliano bambini per “condurli alla luce“, il ballo in maschera è una sfilata di modelle ingioiellate che trascinano pellicce lungo la scala, la pastorale diventa un balletto di travestiti lascivi, le acque mortali della Neva sono evocate da frettolosi passanti che agitano gli ombrelli. La regista nega il décor, ma affolla la scena di persone dall’aria dimessa, donne delle pulizie, entraineuses bistrate, bambini che sfilano tristi per rendere evidente l’opposizione fra gli aristocratici dai privilegi inoppugnabili e gli umili condannati allo scacco. In questa morsa sociale gli outsider sono potenziali criminali, come Hermann, che gira con la pistola sotto l’ascella pronto allo sparo. La Russia contemporanea, Pietroburgo come luogo deputato dello scontro di classe e degli eccessi dell’oligarchia, una società in decadenza che spende soldi nel vizio per fuggire la nostalgia del buon tempo antico, ora come allora. La regia sottolinea il pessimismo e le implicazioni sociali, ma trascura i contenuti drammatici e visionari fortunatamente messi in luce dalle doti interpretative dei protagonisti e dall’ottima esecuzione musicale. Il ruolo di Hermann, figura estrema e allucinata, al di là dell’estensione e della forza tenorile, richiede grande capacità espressiva per suggerire tutte le nevrosi del personaggio. Shicoff dimostra un’aderenza totale alla parte e ci si chiede se non stia soffrendo sul serio e se l’isteria febbrile e al tempo stesso così introversa non sia il frutto di una sensibilità esasperata che ha conseguito la completa identificazione con il personaggio. La capacità di scavo, la varietà di accenti e fraseggio, l’incedere disarticolato, la gestualità nervosa da cui trapela un’autentica sofferenza interiore creano un Hermann di assoluto riferimento. La voce di Shicoff non è “bella”, ma è usata con intelligenza e risulta adatta per rendere tutte le sfumature e il dramma dell’antieroe. Un asso davvero. Martina Serafin ha notevoli doti espressive e crea una Lisa di buon impatto drammatico e forte presenza scenica. Risulta meno convincente da un punto di vista vocale in quanto la voce non ha sufficiente caratura ed estensione per sostenere l’ardua tessitura della parte in zona acuta. Anja Silja è l’altro asso, cantante dalla lunga e intensa carriera che sprigiona ancora carisma e personalità, come la sua Contessa, affascinante e terribile. La presenza magnetica rende “credibile“ la storia bizzarra della Venere moscovita e delle tre carte e, quando si guarda languidamente allo specchio per scorgere le tracce della passata bellezza e intona la canzone francese e la vestaglia scivola giù, un brivido lungo le spalle che inchioda Hermann alla parete e il pubblico alla sedia. La Contessa sovrasta e “seduce“ Hermann che la stringe fra le braccia come fosse un’amante e la violenta per strapparle il segreto, ma in realtà è lui a essere annichilito dalla risata diabolica , reso pazzo da una voce in falsetto spettro dell’oltretomba. Buono il resto del cast per vocalità e caratterizzazione: Albert Dohmen è un Tomsky triviale dalla voce solida, Markus Eiche il principe Jeletzi triste ed elegiaco, bella presenza per la spigliata Paulina di Nadia Krasteva. La direzione di Ozawa restituisce il forte respiro sinfonico che caratterizza quest’opera definita da Rostropovich “ la settima sinfonia “ di Tschaikowski per la ricchezza dell’orchestrazione e le analogie con le ultime sinfonie del compositore russo. Ozawa conosce bene la partitura, ne esalta i contrasti timbrici e dinamici per rendere l’atmosfera cupa e ansiosa che la pervade, amplifica la parabola fatale e drammatica, trovando altresì levità ed eleganza settecentesche nell’intermezzo. Una direzione morbida che segue senza cesure i cambi di registro, in sintonia con i sentimenti ed i gesti dei protagonisti. Al di là del meritato trionfo per cantanti e direttore, una “inutile “nuova produzione. Per il pubblico viennese il precedente allestimento di Kurt Horres, se pur vecchio e polveroso, era ben più avvincente. Nostalgia del buon tempo antico, ora come allora? Visto a Vienna, Wiener Staatsoper, l'1/11/2007 Ilaria Bellini