Il cartellone del San Carlo mostra da qualche tempo una significativa apertura verso i prodotti più rappresentativi del teatro musicale americano del Novecento. L’anno scorso (gennaio 2012) il pubblico napoletano si è visto servire “Porgy and Bess” (1935) di Gershwin, archetipo del problematico connubio tra opera d’impostazione europea e materiali sonori di provenienza popolare o ‘commerciale’ (“American folk opera” la definì il suo autore). Ora tocca a “West Side Story” (1957) di Bernstein, pietra miliare nella storia del “musical”. Le due esperienze sono in qualche modo complementari e opposte: se Gershwin tenta di costruire un melodramma nazionale statunitense che aspira allo statuto delle grandi creazioni d’arte, Bernstein infonde nella drammaturgia mista dello spettacolo newyorkese per eccellenza un’inedita complessità di concezione e di scrittura.
Come già con “Porgy and Bess”, anche per l’esecuzione di “West Side Story” il San Carlo ha acquistato e proposto una sorta di ‘pacchetto chiuso’. Le compagnie d’oltreoceano che detengono una sorta di copyright di questi titoli arcifamosi offrono infatti un allestimento ben collaudato, completo di interpreti vocali, direttore d’orchestra, scene, costumi e regia; l’unico contributo locale è costituito dall’orchestra residente (e, detto per inciso, quella del San Carlo si è dimostrata particolarmente vivace ed efficace alle prese con il non facile “slang” della partitura di Bernstein). Gli spettatori assistono pertanto al dispiegarsi di un gioco scenico impeccabile: la performance è governata da un meccanismo perfetto, nel quale le diverse componenti (canto, danza, mutazioni scenografiche, luci) si combinano al meglio nella serrata successione dei nuclei narrativi. Tutto appare magistralmente sincronizzato, perfino gli inchini con i quali gli interpreti salutano il pubblico alla fine della rappresentazione.
E tuttavia mettere in scena un “musical” su un palcoscenico di tradizione, che di norma accoglie titoli come “Traviata” o “L’olandese volante”, determina una specie di spaesamento. Tanto per cominciare, il disallineamento è di ordine volumetrico: le scene e i movimenti dell’azione americana sembrano quasi perdersi in un grande spazio rappresentativo come quello del San Carlo. Un’ulteriore discrasia riguarda i modi della fruizione. L’andare a teatro prevede una ritualità specifica, e di certo l’atteggiamento degli spettatori che abitualmente assistono all’esecuzione di un “musical” differisce non poco dal regime cui si attiene il frequentatore-tipo di un teatro d’opera. A Broadway la ‘vicinanza’, fisica e psicologica, tra platea e palcoscenico produce un notevole assottigliamento della quarta parete e rende palpabile l’empatia del pubblico, alimentata anche dall’eloquenza gridata e accattivante dei manifesti, dal rito dell’acquisto a prezzo scontato dei biglietti, dalla serie innumerevole dei gadgets.
Nonostante queste ‘distanze’, l’importazione di “West Side Story” entro la sontuosa cornice del San Carlo si può considerare un esperimento riuscito: almeno a giudicare dall’entusiasmo della sala, più eterogenea e più ‘giovane’ del consueto, che ha tributato un plauso incondizionato all’intera performance e ai suoi ‘numeri’ più celebri e struggenti.
Teatro