Con la maturità del linguaggio teatrale Emma Dante ha elaborato un lavoro che devia per una volta dai temi ricorrenti della sua produzione.
Con la maturità del linguaggio teatrale Emma Dante ha elaborato un lavoro che devia per una volta dai temi ricorrenti della sua produzione, e mette in forma una personale meditazione sul fatto teatrale stesso, più direttamente centrata sul lavoro dell’attore nella costruzione del personaggio.
Coerente al proprio logos, l’autrice non traduce il pensiero in parola: il tema non viene concettualizzato, ma diventa motore di una giostra scenica fatta d’ingredienti semplici, per certi aspetti anche prevedibili, ma orchestrati con indiscutibile sapienza teatrale.
Personaggi nudi, due volte sottomessi
Bestie di scena si sviluppa intorno alla nudità degli attori, ai loro corpi misurati ed irregolari, al simulato pudore con cui i personaggi, abbandonati deliberatamente gli abiti con cui esordiscono sul palco, cercano di sottrarsi all’occhio voyeuristico della platea. Ed è nella duplice soggezione, da un lato alla volontà del drammaturgo/regista, dall’altro allo sguardo giudicante del pubblico, che le figure della scena cercano la loro identità di personaggi, fuoriuscendo uno alla volta dal gruppo in cui primamente agiscono come indistinti figuranti di un unico movimento.
Nello spazio astratto della scena il dio/autore manifesta la sua insondabile volontà di potenza facendo apparire gli oggetti/stimolo che danno forma e significato agli attori assoggettandoli di volta in volta al capriccio della sua incondizionata forza creatrice, ora con la paura, ora con la lusinga, ora con ogni altro impulso a cui obbedire. Uno schema in cui risuona con evidenza l’ultimo Beckett, che però qui si colora di corporeità e a tratti d’ironia.
”Ho capito che il peccato stava nel mio sguardo, nel mio fissare quei corpi” chiosa la Dante stessa nella nota di presentazione, alludendo alla nudità totale degli attori; un’osservazione che se da un lato riconosce che quella nudità è motivo di seduzione per lo spettatore, dall’altro sottolinea che solo uno spostamento mentale da quella prima impressione permette di accedere alla poetica dell’opera.
Il rito teatrale e il sacrificio dell’attore
Di tutto rispetto la difficile prova degli attori, qui come mai chiamati ad offrire fino in fondo la propria intimità corporale senza semplificare il senso della propria presenza sulla scena; e il carattere rituale della rappresentazione si nutre dell’offerta sacrificale con cui ogni interprete si consegna senza difese allo sguardo carnefice dello spettatore.
Molto efficace la presenza degli attori sul palco sin dall’ingresso del pubblico in sala, una scelta che in questo caso non è un semplice espediente di regia: se all’inizio, quando le luci sono ancora accese, si percepisce il contrasto brutale fra l’attore già disposto all’eucarestia di sé e lo spettatore ancora distratto nelle ultime conversazioni e negli ultimi sguardi al telefonino, è nel volgere di pochi minuti che la forza della rappresentazione riesce a spegnere la distrazione individuale e a concentrare l’attenzione collettiva sulla scena; come non sempre, va ricordato, capita a teatro.