Sono pochi gli autori teatrali contemporanei capaci oggi di scrivere in modo stratificato, sviluppando sotto la superficie dell'evidenza leggera un pensiero dissonante e più complesso. Antonio Rezza è senz'altro fra questi: nei suoi spettacoli dominano con immediatezza le note della comicità e dell'umorismo, che raggiungono il pubblico con la rapidità della parola; e tuttavia più lento e meno apparente arriva poco dopo il carico più denso, che spesso investe gli spettatori fino a trasformarli nell'oggetto stesso della risata.
Di ritorno a Napoli, dopo il debutto nel 2010, il lavoro 7-14-21-28 esibisce una scrittura più sofisticata e meno aggressiva rispetto alle opere teatrali degli esordi, con una struttura che rimane suddivisa in quadri, costruiti a ridosso della straniante installazione concepita dalla fantasia di Flavia Mastrella. Motivo linguistico dominante, come spesso in Rezza, è il rapporto anomalo fra segno e senso – che poi è il motivo dialettico di tutta l’arte – che viene in questo spettacolo declinato con reiterata finezza, attraverso la ripetizione variata, la distorsione, la deformazione, il piccolo scarto, l’aberrazione del senso, fino a quando i numeri stessi diventano luoghi, persone, relazioni, fotogrammi dello spazio.
La ripetizione, in particolare, che agisce sulla parola e sul gesto, viene più volte prolungata fino alla saturazione; l’operazione ricorda per certi aspetti i sagaci virtuosismi linguistici di Achille Campanile, che intorno a una singola parola era capace di strutturare un intero racconto. Il rigore formale non decade mai, tuttavia, verso esiti puramente “estetizzanti”: se la parola è satura e corrosa, è perché riproduce quella dell’interazione quotidiana, del parlare vacuo e conforme che segna in quest’epoca le relazioni umane e le loro procedure automatizzate. In un registro che oscilla misuratamente fra la satira corrosiva e la parodia grottesca, trova spazio anche un momento d’invettiva pura; questa volta diretta verso il cosiddetto “teatro di narrazione”, dove talora la scrittura scenica si riduce a promuovere il benessere dello spettatore attraverso la retorica del dolore altrui.
Molto accurata la regia, dello stesso Rezza, che assicura esattezza e ritmo esatto alla performance, cui prende diligentemente parte il giovane attore Ivan Bellavista. La perplessità iniziale di vedere uno spettacolo di Rezza allestito in un teatro all’italiana qual è il Bellini si dissolve al momento degli applausi, prolungati ben oltre la consuetudine. Una buona notizia: a Roma e a Milano Antonio Rezza metterà presto in scena delle retrospettive dei propri lavori; speriamo che prosegua anche in altre città.