Ci sono spettacoli che invecchiano bene, come il buon vino. Vedi l'Anna Bolena che ritroviamo in scena al Teatro Verdi di Trieste, ideata da Graham Vick per il Filarmonico di Verona nel 2007, all'apice della sua carriera. Una messinscena all'insegna di una compatta sobrietà registica, cosa insolita invero per lui, consideratone l'immaginifico estro ed il costante anticonformismo.
Due molle che, in qualche caso, lo portavano a risultati di discutibile valenza. Ma in questa circostanza l'artista inglese seppe stringere il nodo narrativo impostato da Felice Romani, principe della librettistica d'allora, e sostenuto dalle intense musiche di Donizetti, tutto sul drammatico contrasto di passioni e di interessi che coinvolge i protagonisti. Procedendo senza deviazioni di sorta, con un andamento coerentemente drammatico, sino al funereo epilogo. Quattro decapitazioni in sol colpo, mentre un volubile Enrico VIII convola a nuove nozze.
Una regia ripresa più volte
Quella regia viene ora nuovamente ripresa da Stefano Trespidi come già nelle precedenti recite triestine del 2012, riproponendola – se la memoria non falla – con intatta fedeltà, non potendo (o non volendo) a rimediarne l'unico difetto. Vale a dire quello dell'eccessiva e tediosa staticità delle masse corali.
Lo scenografo e costumista Paul Brown è purtroppo scomparso nel 2017, quattro anni prima di Vick. Che la terra sia loro lieve. Di lui ci rimangono gli abiti di quest'Anna Bolena, alcuni di ricercata eleganza, altri dal curioso design; nonché le lineari invenzioni scenografiche, basate su trasparenti architetture richiamanti l'epoca Tudor, anteposte a sfondi assai suggestivi. Una razionale essenzialità accentuata da sapienti giochi di luci.
Una bacchetta dalla spiccata teatralità
Dirige con il consueto vigore Francesco Ivan Ciampa, con un andamento asciutto e serrato, evocando sonorità spiccatamente plastiche. Getta così le basi d'una organizzazione narrativa incisiva e di irruente teatralità, ravvisabile specialmente nei vividi concertati. La sua bacchetta si mostra poi sempre vigile nei confronti del palcoscenico, e ben coadiuvata dagli orchestrali del Verdi in ogni frangente: anche quando stende un delicato tappeto di suoni eterei nelle pagine conclusive, là dove troneggia la sagoma della regina incarcerata.
Cosa vuol dire soprano drammatico di agilità
Ed è proprio con quella maestosa, lunga scena che dal vaniloquio di «Piangete voi...Al dolce guidami castel natio» sfocia nell'invettiva di «Coppia iniqua, l'estrema vendetta» - un anticipo del futuro, altrettanto imponente finale di Lucia - che il giovane georgiano soprano Salome Jicia, da noi già elogiata nell'Otello triestino di due anni fa, raggiunge l'apice di una prestazione ammirevole, tutta in crescendo.
Portando in dote una bella fluidità, l'intensa cura espressiva, un timbro gradevole, morbido e chiaro; ed un procedere belcantistico nitido e pressoché impeccabile – siamo nei paraggi d'una Sutherland o d'una Devia, non all'ombra della Callas – che le permette di delineare una figura di cospicuo spessore drammatico, oltre che toccante e di straziante tenerezza.
Seymour, soprano o mezzosoprano?
Laura Verrecchia è innegabilmente brava; mezzosoprano potenzialmente acuto e tendente al chiaro, come richiede il ruolo di Giovanna Seymour, dalla tessitura ai margini di quella sopranile. Tale era anche la sua primissima interprete, Elisa Orlandi. Forte d'un bel velluto, la sentiamo fraseggiare con giusta proprietà, puntando sulla calda pastosità dei centri e su acuti timbrati e pieni. Però le sfugge un po' la sensualità e la carnalità d'una donna capace di far perdere la bussola ad un sovrano. In questo caso l'Enrico VIII che ci consegna Riccardo Fassi: vocalmente impetuoso e possente, ma dal fraseggiare un tantino limitato.
Andiamo avanti, tocca al tenore. L'impervia figura di Percy gravita tutta nella regione acuto, dove richiede per soprammercato emissione morbidissima e dolce. Marco Ciaponi si impegna a fondo, e fa quanto può. Cioè invero molto, veramente molto; ma non tutto. Non certo per colpa sua, considerato che mette in mostra una vocalità luminosa e ben guidata, consegnando un più che apprezzabile «Vivi tu, te ne scongiuro»; ma l'ardua partitura fu pensata da Donizetti, in origine, per la peculiare vocalità di Rubini, interprete stellare mai eguagliato.
Quanto ai comprimari, Nicolò Donini consegna un nobile e persuasivo Rochefort; il mezzosoprano russo Veta Pilipenko tratteggia uno Smeton abbastanza ben cantato, ma bamboleggiante; Andrea Schifaudo è un buon Harvey. Il Coro del Verdi, preparato da Paolo Longo, si comporta adeguatamente. Nel cast alternativo figurano Sara Cortelezzis, Alessia Nadin e Francisco Brito.