La nuova produzione del Boris Godunov di Modest Musorgskij che ha inaugurato la stagione 2022/23 del Teatro Alla Scala ha coinciso con la prima rappresentazione assoluta nella sala del Piermarini della versione del 1869, ribattezzata Ur-Boris, dopo l’allestimento realizzato sempre dai complessi scaligeri al Teatro degli Arcimboldi nel 2002.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Tre versioni di un capolavoro
L’opera vanta una genesi abbastanza complessa, infatti questa prima versione venne ultimata nel 1869 e, respinta dalla censura, non fu mai rappresentata mentre l’autore era in vita. Musorgskij successivamente compì un’importante revisione e la nuova partitura, che comprende l’aggiunta di un intero atto, debuttò a San Pietroburgo nel 1874.
Nonostante il grande consenso da parte del pubblico, l’orchestrazione ed alcune scelte armoniche di Musorgskij vennero considerate troppo rozze e poco accademiche da molti musicisti, al punto che l’amico Rimskij Korsakov riorchestrò completamente l’opera e fu proprio quest’ultima edizione, più incline ai gusti dell’epoca, a valicare i confini della Russia e a soppiantare le altre due a livello internazionale, almeno fino alla metà del secolo scorso.
Dopo le prime timide apparizioni, da ormai un trentennio è tornata a dominare sui palcoscenici la versione 1874 nell’orchestrazione di Musorgskij ma si sta sempre più affermando anche il cosiddetto Ur-Boris che, nel suo essere più vicino alla concezione originaria dell’autore, ha il dono di una maggiore compattezza e pone in primo piano il dramma del protagonista.
Un dramma dalle tinte shakespeariane
Dramma che viene enfatizzato nella regia di Kasper Holten, che sottolinea il senso di colpa di Boris facendolo sempre accompagnare in scena dallo spettro insanguinato del giovane zarevič Dmitrij, da lui fatto assassinare per poter ascendere al trono. Un’interpretazione in chiave shakespeariana non nuovissima e poco sviluppata in corso d’opera al punto da risultare ridondante.
Altro elemento dominante è quello della grande mappa di tutte le Russie che domina l’efficace scenografia di Es Devlin, impreziosita dalle suggestive luci di Jonas Bøgh, che accomuna le figure del monaco Pimen, che di questa mappa è l’autore, e del figlio di Boris, Fëdor, appassionato di geografia ed intento a giocare con un mappamondo sul quale curiosamente campeggia anche l’Australia, avvistata per la prima volta circa un anno dopo la morte di Boris.
Se per tutta la prima parte lo spettacolo si dipana in modo abbastanza convenzionale, senza particolari guizzi dal punto di vista registico, viene invece ottimamente risolta la seconda parte in cui la scena della folla davanti a San Basilio diventa in realtà un incubo di Boris: soluzione che riesce perfettamente a fondere in un unicum gli ultimi tre quadri, raggiungendo momenti di grande teatro. Shakespeariano, anche se un po’ fine a sé stesso, anche il finale in cui Holten si prende la libertà di far morire lo zar pugnalato mentre il sipario cala sul beffardo ghigno di Grigorij.
Una rivoluzione copernicana nell’interpretazione musicale
Elemento caratterizzante di questa nuova produzione è stata la direzione di Riccardo Chailly che ha dato della partitura una lettura nuova, più meditata, attentissima al fraseggio ed alle sfumature, affrontando la concertazione di Musorgskij – che dopo questa edizione non si potrà più accusare di rozzezza- quasi come se si trattasse di sinfonismo viennese.
Se da una parte questa scelta ha smussato alcune ruvidezze, ridimensionando i passaggi più enfatici -in alcuni casi anche a discapito della teatralità- dall’altra ha compiuto uno scavo notevole sui personaggi conferendo loro una profondità ed una ricchezza espressiva quali forse non si erano mai ascoltate prima: splendida ad esempio l’aria di Ščelkalov nel primo quadro, ma anche la lunga scena di Pimen del terzo è stata intessuta con una raffinatezza quasi liederistica.
In sostanza una rivoluzione copernicana dal punto di vista interpretativo assecondata da un’orchestra particolarmente ispirata ed affrontata con coerenza anche nella scelta del cast.
Ildar Abdrazakov non avrà forse la cavata dei grandi Boris del passato ma è cantante di grande intelligenza ed eccellente fraseggiatore. La sua interpretazione, tutta giocata su sfumature, spesso a fior di labbra, sempre sul canto e senza mai scivolare per un solo istante nel parlato, si è chiusa con una scena della morte per cui non è eccessivo parlare di capolavoro, complice Chailly che ha sbalzato l’orchestra in punta di cesello.
Ottimi anche Ain Anger nel ruolo di un Pimen emotivamente coinvolto e partecipe della vicenda e Alexey Markov, magnifico Ščelkalov. Yaroslav Abaimov ha tratteggiato un Innocente intenso e commovente mentre il Šuiskij di Norbert Ernst è risultato debole nell’emissione. Dmitry Golovnin ha caratterizzato un Grigorij incisivo sia vocalmente che scenicamente, mentre Stanislav Trofimov si è ben disimpegnato nell’aria di Varlaam.
Da manuale la prova del Coro del Teatro alla Scala e del Coro di voci bianche diretti rispettivamente da Alberto Malazzi e Bruno Casoni, veri co-protagonisti dell’opera.
Al termine successo incondizionato per tutti con punte di entusiasmo per Ildar Abdrazakov.