In un’intervista rilasciata al giornalista Furio Colombo il giorno prima della sua morte (2 novembre 1975), Pier Paolo Pasolini diceva: “Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi”.
Due anni prima, avveniva la pubblicazione dell’unico testo dell’autore, risalente a quando ancora era in vita. Il testo in questione è Calderon. Ispirato per l’ambientazione e per la scelta nomistica dei personaggi a La vita è sogno (1635) di Pedro Calderòn de la Barca, racchiude in sè i capisaldi di un’epoca, di un’ideologia, di un pensiero, di un’esistenza infernale. Il Calderon è l’inferno da cui il personaggio principale, Rosaura, cerca di evadere. In che modo? Attraverso il sogno o forse attraverso una vita sognata: una vita colma d’amore. Tuttavia di un amore impossibile.
Nella messa in scena di Calderon con la regia di Federico Tiezzi , il confine tra vita e sogno, tra oppressione e evasione, è sottilissimo. Dentro un interno-“prigione” ricoperto di mattoni grigi riecheggiano insegnamenti freudiani, il peso antropofago di un sistema-società intriso di potere e dettato da regole, il meccanismo metateatrale – già presente nel testo pasoliniano - snocciolato nei suoi vari elementi. Un certo fascino onirico aleggia su tutto lo spettacolo, dove più vicende si intrecciano presentate o commentate dalla figura metateatrale dello Speaker (Sandro Lombardi) alla cui voce fa da sfondo il brano musicale Silencio composto da Angelo Badalamenti per il noto film di David Lynch, Muhlolland Drive. Scelta non casuale se pensiamo alle atmosfere sognanti che dominano nei diversi cambi di scena.
Una scena mobile (di Gregorio Zurla) che può solo alzarsi o abbassarsi, lasciando intravedere o nascondendo brevi testi luminosi. Una stanza occlusiva dove letti scorrevoli diventano isole di solitudine di umane esistenze emarginate - dal e nel sistema sociale di cui fanno parte - con un tiepido sguardo verso una finestra aperta da cui entra la luce di un sole sbiadito.
Tre sogni o tre risvegli (?), tre interpreti differenti per la protagonista. Per tre volte Rosaura si sveglia in tre ambienti diversi: aristocratico, proletario, medio borghese. Nella prima parte ambientata a Madrid, la protagonista (Camilla Sevino Favro) si innamora di Sigismondo un amico di sua madre, che con un colpo di scena si scoprirà essere suo padre. Qui i personaggi del quadro Las Meninas di Velasquez - dal Museo del Prado di Madrid - escono letterarmente dal dipinto per prendere vita sul palco negli abiti evanescenti di scena (di Giovanna Buzzi e Lisa Rufini). Nel secondo sogno Rosaura (Lucrezia Guidone), ormai in età adulta, vive a Barcellona e fa parte degli esclusi: è una prostituta del sottoproletariato. Un ragazzo in giovane età le farà visita in occasione del suo sedicesimo compleanno con l’intenzione di scoprire il sesso per la prima volta, dopo essere stato incitato da alcuni amici. Si tratta di Pablo, di cui Rosaura si innamorera’, ma di cui scoprirà la vera identità: è suo figlio, da lei abbandonato tempi addietro. Nel terzo sogno invece siamo in un ambiente di piccoli borghesi. Rosaura (Debora Zuin) è una madre ammalata all’interno di un lager ai tempi del nazismo. Qui si innamora di un giovane studente che sta cercando di sfuggire alla polizia e che sembra proprio essere suo figlio. La condizione in cui Rosaura è incastrata, quella piccolo borghese, è oppressiva proprio come quella all’interno di un campo di concentramento.
Il senso di desolazione dei personaggi è sottolineato dalla scelta di una scena alquanto vuota e dalla mancanza di un’azione dinamica, alla maniera di Pasolini, che nel periodo in cui è stato scritto il testo Calderon, prediligeva un tipo di testo di parola, portando la forma poetica a quella drammatica e mettendo in secondo piano l’azione scenica. Non mancano tuttavia dei riempitivi movimenti coreografici di Raffaella Giordano che riescono a dare dinamicità e ritmo alla scena, la quale altrimenti sarebbe andata in direzione di un lieve appiattimento della fruizione.
Il Calderon di Tiezzi e Lombardi dimostra studio accurato del testo pasoliniano, lavoro imponente e attenzione meticolosa ai riferimenti e ai dettagli, sfoggia degli attori eccellenti, ma forse è carente di quel quid drammaturgico che avrebbe tenuto desta l’attenzione dello spettatore per l’intero spettacolo.