Prima ripresa della stagione 2023/24, il dittico costituito dai due capolavori del verismo ovvero Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo è tornato al Teatro alla Scala nell’allestimento firmato da Mario Martone nel 2011 facendo registrare una serie di sold out.
Cavalleria tra tragedia e liturgia religiosa
A distanza di 13 anni dal debutto la regia dell’opera di Mascagni dimostra di non sentire i segni del tempo. Martone infatti riduce il dramma ai suoi elementi essenziali: onore, vendetta, rifiuto da parte della comunità, rinunciando a qualunque aspetto folkloristico. Laddove Zeffirelli si produceva in processioni che trasudavano lo sfarzo del barocco, Martone punta ad una sintesi incentrata sui rapporti umani.
Il palcoscenico nero completamente spoglio, illuminato solo da luci di taglio, diventa la navata della chiesa nella quale si siede il coro che rimane in scena per tutta la durata della rappresentazione, a volte partecipando all’azione, a volte limitandosi a seguire la funzione religiosa della domenica di Pasqua, ma non mancando mai di far percepire la propria fisicità, come una sorta di coro greco con cui interagiscono i protagonisti, in particolare Santuzza. La ragazza infatti, in quanto scomunicata viene rifiutata in chiesa e non trova posto tra le sedie, tuttavia, dopo la morte di Turiddu uscirà fendendo a testa alta le due ali di folla in segno di rivincita per l’onore violato.
Una regia tanto scabra ed essenziale quanto efficace ed incisiva, in cui la tragedia viene scandita dai ritmi della liturgia sacra, ed in cui solo lo sgargiante abito rosso di Lola si stacca dal bianco e nero che caratterizza i costumi firmati da Ursula Patzak.
Pagliacci più secondo tradizione
Più convenzionale è invece sembrato l’allestimento di Pagliacci, ambientato ai giorni nostri in un’anonima periferia, in prossimità di un cavalcavia sotto cui esercitano alcune prostitute -unico elemento di collegamento fra le due rappresentazioni: infatti Cavalleria si apre con Alfio che esce da un bordello- ed in cui si svolge la vicenda.
Se all’aprirsi del sipario la scena di Sergio Tramonti colpisce per l’indubbio colpo d’occhio, l’effetto tende ad esaurirsi in fretta quando si intuisce che la regia opta per una serie di soluzioni ormai diventate di repertorio: la roulotte, i saltimbanchi, l’andirivieni di autovetture sul palcoscenico, il gioco metateatrale che sposta l’azione anche in platea, oltre a tutto un dettato di azioni che fanno parte di una consolidata tradizione.
È vero che dal punto di vista drammaturgico Pagliacci ha una scansione più rigida e schematica rispetto a Cavalleria, tuttavia in questo caso, oltre ad un guizzo innovativo, sembra mancare anche un cast che dal punto di vista recitativo appaia veramente immedesimato ed incisivo sulla scena. In sostanza uno spettacolo che si apprezza per la cura e la professionalità ma che non lascia il segno come il precedente.
Lungamente applaudita l’esecuzione musicale
Dal punto di vista vocale Cavalleria rusticana è dominata dalla performance di Elina Garanča. Nonostante in partitura la vocalità di Santuzza sia indicata come soprano, da sempre in questo ruolo hanno primeggiato i mezzosoprani e la cantante lettone conferma questa tradizione. La voce magnifica, impeccabile nell’acuto e timbratissima nel registro grave, un fraseggio articolatissimo ed una presenza scenica carismatica hanno contribuito a delineare una Santuzza da manuale.
Al suo fianco spiccano l’intensa Elena Zilio, una Mamma Lucia dal vigore di una leonessa e Francesca di Sauro, una Lola dalla voce luminosa e dalla spavalda sensualità. Sul versante maschile: Brian Jagde è un Turiddu dal timbro generoso e dagli acuti ben proiettati ma discontinuo nel fraseggio, mentre Roman Burdenko è un Alfio efficace nella sua ruvidità. Ruvidità che il baritono siberiano mantiene anche nel ruolo di Tonio in Pagliacci, a discapito ad esempio del prologo che richiederebbe un maggiore lirismo.
Il Canio di Fabio Sartori si distingue per l’ampiezza del volume e per la solidità del registro centrale e gli acuti spavaldi, tuttavia il timbro si è opacizzato l’interpretazione non sempre riesce cogliere le sfaccettature del personaggio che resta un po’ in superficie. Irina Lungu è una Nedda dal bel timbro lirico e raffinata nel fraseggio che trova i suoi momenti migliori nel duetto con l’ottimo Silvio di Mattia Olivieri, mentre Jinxu Xiahou è un corretto Arlecchino.
Alla testa dei complessi scaligeri Giampaolo Bisanti opta per una lettura nel complesso tradizionale, che sottolinea gli elementi più drammatici delle due partiture, qualche volta eccedendo nei volumi, ma tenendo sempre bene in mano le redini della narrazione, che si dipana in modo estremamente efficace senza trascurare i passaggi più lirici e raccolti, resi con grande efficacia.
Come sempre straordinaria la prova del Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi.
Il pubblico costituito da abbonati del turno “mini” e da turisti perlopiù stranieri ha applaudito con diligenza durante la rappresentazione tributando un successo incondizionato a tutti gli interpreti al termine di ciascuna opera.