Previsto come spettacolo inaugurale del Festival 2020 annullato poi per Covid, il dittico costituito da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo è andato in scena all’Arena di Verona in una nuova versione riadattata nel rispetto dei protocolli sul distanziamento.
I tradizionali allestimenti sono stati temporaneamente accantonati in favore di un progetto, identico per tutti i titoli in programma questa stagione, basato su un fondale ledwall sul quale campeggiano immagini legate all’opera eseguita. Sul palco alcuni elementi scenici supportano i cantanti, mentre il coro è confinato sulla gradinata di sinistra senza partecipare all’azione. Sostanzialmente una sorta di versione semiscenica che in nessuno dei titoli in cartellone vede la firma di un regista.
Tra bianco e nero e colore
Per Cavalleria rusticana si è scelto un allestimento di impianto tradizionale e decisamente austero. Le immagini sul ledwall, in rigoroso bianco e nero, raffiguravano la facciata di una chiesa barocca attorniata dalle case del borgo con alle spalle i campi. Immagini fisse, che facevano pensare ad un’evoluzione digitale dei vecchi fondali dipinti in voga fino alla seconda metà del secolo scorso, tranne in un paio di occasioni in cui hanno lasciato il posto ad alcune proiezioni.
Neri anche i costumi dei protagonisti che agivano in modo abbastanza convenzionale, con una scenografia che prevedeva le solite statue in processione i soliti tavolini dell’osteria e tutto quanto ci si possa attendere da questo titolo.
Più colore è più fantasia invece si sono viste nei Pagliacci, ambientati in uno studio cinematografico dominato dalla presenza di Federico Fellini (le immagini infatti provenivano dal Museo del cinema di Torino e dal Museo Fellini di Rimini). Il dramma della gelosia si svolgeva in un ambiente popolato dai personaggi usciti dalle pellicole del grande regista, tra cui la Dolce vita, La Strada, lo Sceicco bianco, e naturalmente i Clown.
Un’idea interessante ma non completamente sviluppata, al punto che nella recita finale, anche a causa di una non perfetta gestione delle masse, il gruppo degli attori tendeva a scomparire in mezzo a tutti gli altri figuranti mascherati. Pur apprezzando il risultato complessivo, si è avuta la sensazione che in entrambi gli spettacoli sia mancata una vera e propria regia che caratterizzasse in modo netto l’azione.
Cast omogenei ed equilibrati
L’aspetto musicale era affidato alla bacchetta di Marco Armiliato, cui va riconosciuto il merito di aver coordinato ottimamente cantanti coro e orchestra, nonostante la disposizione non proprio agevole. La concertazione, nel complesso prudente, è stata caratterizzata da tempi abbastanza distesi che hanno ridimensionato la componente verista della partitura esaltandone quella più lirica.
Omogenei i cast che peraltro vedevano due interpreti, rispettivamente Yusif Eyvazov e Sebastian Catana, impegnati in entrambi i titoli. Il tenore azero ha risolto sia Turiddu che Canio in chiave passionale, esaltandone gli accenti drammatici. La linea di canto ferma e la voce sempre ben proiettata hanno concorso a due interpretazioni pienamente riuscite. Catana, nei panni di compare Alfio e Tonio, ha sfoggiato voce solida e robusta. Il fraseggio appariva povero di sfumature ma i due personaggi risultavano comunque incisivi.
In cavalleria Maria Josè Siri è stata una Santuzza intensa e vibrante, dalla voce piena e rigogliosa e convincente dal punto di vista interpretativo. Apprezzabili le prove di Agostina Smimmero (Lucia) e Clarissa Leonardi (Lola) nonostante il timbro particolarmente scuro.
In pagliacci la Nedda di Valeria Sepe si è distinta sia nei passaggi drammatici che in quelli più lirici quali il duetto d’amore condiviso con l’ottimo Silvio di Mario Cassi. Apprezzabile la prova del coro diretto da Vito Lombardi nonostante la posizione creasse un effetto per alcuni versi straniante.
Calorosa al termine la risposta del pubblico.