Titolo: Dalle rive dell'Arno a quelle dell'Adige: “La Cenerentola” di Rossini arriva in scena al Filarmonico di Verona
A soli due mesi di distanza dalla ripresa a Firenze di Cenerentola nell'allestimento che Manu Lalli aveva già presentato nel 2017 nel Cortile di Palazzo Pitti e l’anno successivo al Comunale, ecco l'opera rossiniana approdare al Teatro Filarmonico di Verona, sebbene con un cast diverso.
E' un allestimento dagli indubbi pregi, che ha incontrato il costante favore del pubblico; per esso la scenografa Roberta Lazzeri ha ideato alcune grandi quinte tridimensionali e girevoli, a rappresentare ora la decadente casa di Don Magnifico, ora la reggia di Don Ramiro, ponendo in tal caso sullo sfondo una lunga galleria barocca. Enormi libri a destra e manca testimoniano la passione per la lettura di Angelina, che difatti entra in scena leggendo un volumone da cui le dispettose sorellastre strapperanno pagine su pagine.
Un nugolo di fate grandi e piccine
A vivacizzare la vicenda, deliziose controscene sono affidate ad un nugolo di eteree fate danzanti (un'invenzione simile c'era pure nella precedente Cenerentola romana di Emma Dante) le quali proteggono la giovane Angiolina; se ne andranno meste meste allorché coronerà il suo sogno d'amore.
E' uno spettacolo molto poetico e fluido, questo della regista fiesolana, ricco di felici annotazioni comiche e intriso di tenera poesia, in cui la fanno da padrone anche i graziosi costumi di Gianna Poli.
Due innamorati un po' timidi
Il mezzosoprano russo Maria Kataeva ci porge un'Angiolina di apprezzabile qualità. Certo, non ha voce debordante, però di buona pasta; canta con garbo e finezza, risolve con dignità le colorature e punta sulla sapida recitazione e l'aggraziato physique di rôle. Una prestazione positiva, ma non proprio travolgente nel rondò finale «Nacqui all'affanno».
Pietro Adaíni è un Don Ramiro a mezzo servizio, un tantino strizzato: a parte il timbro un po' ingrato, e la penuria di morbida lucentezza tenorile, da capo a fine - anche nell'impegnativa aria del secondo atto «Sì ritrovarla io giuro» - si avverte qualche sbandamento, gli acuti riescono un po' stentati, il fraseggio risulta scarno ed avaro.
Un lacché, un nobile. Entrambi squattrinati
Alessandro Luongo è un Dandini ammiccante, estroso ed ironico, reso con quell'energica e bella musicalità che contraddistingue il baritono pisano.
Nulla della ridicola marionetta altrove proposta incontriamo nel Don Magnifico di Carlo Lepore, recitato con verosimile e sottile comicità, e cantato con fantasia di colori e fluida scioltezza: momento clou, l'aria della cantina dagli ineccebibili sillabati. Alidoro, alla prima, è Matteo D'Ippolito: canta bene, e «Là del ciel» scorre liscia; ma la statura austera del severo maestro di vita non s'intravede, sostituita com'è da una familiare bonomia.
Daniela Cappiello e Valeria Girardello danno vita ad una accoppiata Clorinda/Tisbe di notevole risalto, scenicamente brillante e vocalmente impeccabile. Senza eccessivi fastidiosi cachinni, per di più.
Un'opera dall'andamento pulsante
Francesco Lanzillotta amministra dal podio con sicurezza e molta intelligenza questa Cenerentola già dalla Sinfonia, condotta tutta in punta di fioretto; pronto sempre a conferire opportuno risalto a quella pulsante ossatura ritmica che contraddistingue il Rossini migliore.
Cè cura ed attenzione nel suo concertare, ma senza inutili calligrafismi; procede con leggerezza e luminosità, varietà di colori ed inesausta fantasia, traendo dall'orchestra dell'Arena e dal cast tutto il meglio possibile. Ineccepibile l'apporto della sezione maschile del Coro areniano seguito da Roberto Gabbiani.