Con il vostro irridente silenzio è uno spettacolo, o meglio un esperimento teatrale necessario, come lo definisce il suo interprete e autore Fabrizio Gifuni, di prepotente attualità, nato dall’esigenza e dall’urgenza di avere qualcosa da dire che non può essere taciuto, che non deve essere taciuto.
L’attore romano ripercorre una delle pagine più dolorose e infami della storia del nostro Paese, il sequestro di Aldo Moro, con rispetto, dignità, forza e lucidità.
Aldo Moro: la storia di un uomo solo
La mattina del 16 marzo 1978 Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, fu bloccato in via Fani da un nucleo delle Brigate Rosse, che lo sequestrò dopo aver massacrato la sua scorta.
Moro si stava recando in Parlamento per votare la fiducia al primo governo di “solidarietà nazionale” con l’appoggio del PCI, presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il Partito Comunista partecipava alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto l’esecutivo: era stato Moro a gestire l’accordo.
La sua prigionia durò 55 giorni – un periodo in cui Moro scrive a familiari, amici, colleghi di partito e istituzioni una lunga serie di lettere, lucide e disperate, dove ricorda, interroga, accusa, confessa, riflette e compone anche un lungo testo politico, il cosiddetto Memoriale.
Per i suoi compagni di partito – e per buona parte dei media – quei testi sono il frutto di una mente non più in sé, di una persona provata della violenza subita, chiaramente plagiata dai suoi carcerieri.
Di fatto mettono in atto una strategia vergognosa per screditare le parole del segretario della DC: i suoi appelli politici e umani vengono sistematicamente ignorati, ridicolizzati, ritenuti non credibili e inaccettabili.
In quei 55 giorni di prigionia Moro è un uomo solo, abbandonato dallo Stato e da una democrazia che non lo difende, che rifiuta una qualsiasi trattativa con i rapitori. La sua prigionia si conclude con la sua uccisione: il cadavere fu ritrovato in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure il 9 maggio dello stesso anno, nel bagagliaio di una Renault 4.
Il lavoro drammaturgico: l'attenzione alla parola
È interessante come Gifuni costruisce questo lavoro dal punto di vista drammaturgico: decide di non creare un nuovo testo, ma di partire e lavorare solo sulle parole scritte di suo pugno da Moro, su ciò che lo statista aveva prodotto in quei 55 giorni di prigionia. Il titolo dello spettacolo, “Con il vostro irridente silenzio” , è infatti una frase scritta da Moro in una delle sue ultime lettere indirizzata ai suoi compagni di partito.
L’opera creata da Gifuni è potente, impegnativa, non semplice; il lavoro di drammaturgia, che alterna le lettere ad estratti del Memoriale, è stato lungo e complesso: l’autore e interprete romano afferma che ha dovuto studiare molto perché ogni pagina è piena di riferimenti che vanno compresi e svelati.
Le pagine del Memoriale di Moro ci offrono una riflessione disincantata e schietta della scena politica dell’epoca, restituendoci un’immagine chiara delle dinamiche politiche interne ed esterne che muovevano le decisioni e influenzavano l’operato della classe politica di quegli anni: la sua è un’analisi acuta, precisa, puntuale, una sorta di profezia che si è avverata negli anni. Le lettere ai suoi cari sono struggenti e tenere, raccontano un uomo affettuoso, amorevole, pieno di attenzioni per la moglie e i figli, ma dove emerge con forza il dolore causato dall’indifferenza che circonda la sua situazione e dall’abbandono da parte di tutto il mondo politico.
Una messa in scena semplice ma potente
Una scena quasi vuota, uno spazio scenico molto semplice: una scrivania, una sedia - su cui l’attore non si siederà, una serie di fogli sparsi per terra, un microfono e i testi di Moro. Nessuna musica, solo le potenti parole di Moro, macigni di verità e un Gifuni in stato di grazia, che dà voce e corpo alle ultime parole dello statista, regalandoci un’interpretazione intensa, potente, vibrante e di forte impatto emotivo.
In un certo senso l’attore “incarna” quelle parole. Come dice lo stesso Gifuni il teatro è “una questione di spettri”, è il luogo dove prendono vita quegli spettri che non hanno avuto degna sepoltura: è naturale che ciclicamente la storia e la politica culturale inciampi in questi corpi ingombranti. Aldo Moro è come Pasolini, un corpo ingombrante con cui fare i conti, una questione irrisolta, uno spettro che chiede a gran voce verità e giustizia.
Fabrizio Gifuni ci fa rivivere la vicenda Moro attraverso gli occhi della vittima.
La sua postura e la sua voce ricordano Moro, in un certo senso lo evocano, senza eccedere, senza mai cadere nella caricatura, ma creando un effetto straniante ma di forte verità.
Alla fine dello spettacolo, troviamo un Gifuni che smessi i panni di Moro, è visibilmente commosso, profondamente scosso: un’artista che nonostante una carriera trentennale, in scena si emoziona ancora come fosse la prima volta, consapevole della responsabilità che si è assunto nel pronunciare le ultime parole scritte dallo statista democristiano e nel farsi portavoce di una verità così dolorosa e violenta.