Dopo ben diciotto anni ritorna in scena lo spettacolo Copenaghen, per la regia di Mauro Avogadro, mirabilmente interpretato da Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice.
Niels Bohr, sua moglie Margrethe e Werner Heisenberg. Due scienziati e la moglie di uno di loro sono i protagonisti di uno dei testi più famosi del grande drammaturgo Michael Frayn. Dopo ben diciotto anni ritorna in scena per la regia di Mauro Avogadro Copenaghen, mirabilmente interpretato da Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice.
Uno spettacolo che intreccia destini di persone realmente vissute e rese famose dalle scoperte in campo scientifico dunque, partendo dal “maestro” Bohr finendo con l’allievo Heisenberg, che scoprì l’omonimo principio di indeterminazione. L’incontro fra i due nel freddo inverno di Copenaghen occupata dai nazisti nel 1941 è il punto di partenza e d’arrivo, per certi versi, di tutta la pièce: cos’accadde davvero durante l’incontro tra i due scienziati, di cosa parlarono, quali conseguenze portò la conversazione nelle loro vite e nel destino della scienza?
Indeterminazione e relatività
I tre personaggi appaiono in scena nelle vesti di tre fantasmi di grigio vestiti, impeccabili nei loro tailleur, presenze mistiche quanto reali nella narrazione e nei dialoghi serrati che si susseguono durante tutto lo spettacolo. Il contesto somiglia a un’aula universitaria di fisica, il fondale del palcoscenico è interamente occupato da una serie di lavagne piene di formule matematiche che si susseguono quasi fino ad arrivare al proscenio, dove l’unico elemento scenografico è costituito da quattro sedie, usate dagli attori per creare le diverse prospettive di quel famigerato incontro. Il palco è in pendenza verso gli spettatori, segno efficace della precarietà dei discorsi e delle supposizioni, tema centrale dello spettacolo, e della “relatività” con cui perennemente hanno a che fare i personaggi.
Tutto intorno è grigio, scuro e i volti degli attori contrastano con tutto il resto, creando un’atmosfera un po’ noir, un po’ irreale, concentrando tutta l’attenzione sulle parole e sui complessi concetti enunciati dai due scienziati, intervallati esclusivamente dalla mediazione, narrativa e scenica, della moglie di Bohr. Unica presenza femminile ed “estranea” alla scienza e al sapere dei due uomini, il personaggio di Margrethe funge da “spartiacque” tra i due, è la voce neutrale e a tratti è come se arbitrasse una partita tra pugili. Con la differenza che qui i colpi inferti non sono pugni o calci ma stilettate di formule, teorie e sensi di colpa.
Fra fisica e politica: senso di responsabilità morale
È proprio la responsabilità morale, o forse addirittura il senso di colpa, l’ipotesi più accreditata del perché Heisenberg fece visita al maestro Bohr in Danimarca: entrambi gli scienziati, coinvolti nella ricerca scientifica, sebbene su fronti opposti, in quel periodo stavano lavorando al processo che portò alla costruzione della bomba atomica. I fronti si confondono e come enunciato dallo stesso Heisenberg: «A volte è estremamente difficile separare la fisica dalla politica». Allora la narrazione si sposta su un altro piano, mettendo in gioco forze e poteri irrimediabilmente fuori dalla portata dei due uomini di scienza.
Il testo di Frayn è sorprendentemente lineare e scorrevole nonostante la complessità e gli sbalzi temporali “vissuti” dai personaggi, e la regia di Avogadro permette di cogliere appieno il senso e il significato di tematiche difficili come le teorie fisiche e matematiche attraverso una pulizia dei movimenti degli attori interamente posta a servizio della drammaturgia. Fra ricordi, aneddoti anche a tratti divertenti, rimandi storici e scientifici si arriva al finale, come un vortice a spirale sempre più stretto in cui la verità sembra definitivamente inafferrabile, come dimostrano le ultime battute di Heisenberg: «l’indeterminazione è nel cuore delle cose».