A conclusione della stagione 2023/24, al Teatro Alla Scala ha debuttato un nuovo allestimento di Das Rheingold di Richard Wagner, prima tappa di un progetto che porterà alla realizzazione dell’intero Ring nella primavera del 2026 con la regia di David McVicar.
Interpretazione in controtendenza rispetto agli ultimi decenni
Staccandosi da una tradizione interpretativa ormai consolidatasi negli ultimi 50 anni, il regista scozzese -autore anche delle scene insieme ad Hannah Postlethwaite- ha evitato ogni lettura di carattere politico o socio-economico dell’epopea wagneriana, recuperandone l’atmosfera mitica, che però in questo caso, anziché rifarsi al medioevo scandinavo, è ispirata al fantasy -genere ormai acquisito a mito-pop del XXI secolo- con riferimenti ad un immaginario rinascimento britannico che strizza l’occhio a Shakespeare.
Se infatti la scena tra Alberich e le Figlie del Reno rimanda al Sogno di una notte di mezza estate, i costumi degli dei nel Walhalla -firmati da Emma Knigsbury- proiettano nell’epoca Tudor, in particolare quelli (inspiegabilmente) femminili di Froh, Donner e Loge che li fanno assomigliare a tre comari di Windsor.
Lo svolgersi degli eventi, fedele alle indicazioni del libretto, è arricchito da alcuni elementi simbolici, peraltro non originalissimi. Il primo è la mano, metafora della bramosia, che appare all’inizio a sorreggere le figlie del Reno e torna nei cambi scena. L’altro è la maschera, simbolo di divinità -cui gli dei devono rinunciare quando Freia viene rapita dai giganti- e simbolo del potere esercitato dall’Oro del Reno, rappresentato da un ballerino cui Alberich la strappa e che riapparirà al termine dell’opera strisciante e insanguinato al cospetto degli dei indifferenti nell’unica scena veramente icastica dello spettacolo.
Per il resto la regia non presenta particolari guizzi, con i cantanti perlopiù fissi a proscenio ed un susseguirsi delle azioni abbastanza prevedibile.
Concertazione di grande teatralità, cast equilibrato
Più interessante l’aspetto musicale, nonostante il ritiro a due mesi dal debutto il direttore designato Christian Thielemann abbia costretto il teatro ad optare per un tandem direttoriale che si alternerà nel corso di tutto il progetto. La replica cui abbiamo assistito ha visto sul podio il britannico Alexander Soddy, succeduto a Simone Young, che si è distinto per una lettura nitida, luminosa, ma allo stesso tempo ricca di sfumature e soprattutto di grande teatralità, che ha opportunamente evitato di scivolare nell’enfasi e nella magniloquenza.
Equilibrato il cast su cui ha dominato l’Alberich di Ólafur Sigurdarson che ha sfoggiato un timbro corposo, esteso e di grande omogeneità grazie al quale ha delineato un antieroe credibile senza mai scivolare nell’eccesso o nel grottesco. Nei panni del suo antagonista Michael Volle si è confermato Wotan di riferimento per la ricchezza di fraseggio e la profondità dell’interpretazione, nonostante il timbro apparisse leggermente appannato.
Norbert Ernst ha dato voce e corpo ad un Loge vitale e ironico ma a tratti opaco nell’emissione mentre spiccavano per bellezza del timbro il Froh di Siyabonga Maqungo e il Donner di Andrè Schuen. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke è stato un Mime sfaccettato e mai caricaturale mentre la coppia dei giganti era interpretata da Jongmin Park, Fasolt autorevole, e da Ain Anger, Fafner dalla linea di canto frammentaria.
Sul versante femminile si sono apprezzate le prove di Okka von Der Damerau, Fricka incisiva e mai petulante, Olga Bezsmertna, Freia dalla solida linea di canto e Christa Mayer, Erda dal timbro brunito e pastoso. Convincenti anche le prove delle Figlie del Reno ovvero Andrea Carroll, Svetlina Stoyanova e Virginie Verrez.
Al termine il pubblico che riempiva il teatro ha tributato applausi convinti a tutti i responsabili della parte musicale.