Per il secondo anno consecutivo il Teatro Filarmonico di Verona apre a gennaio la sua stagione lirica all'insegna di Mozart. E lo fa convocando lo stesso regista, Ivan Stefanutti. L'anno scorso con Le nozze di Figaro, quest'anno con Die Zauberlflöte inquadrato nel Festival Mozart a Verona 2024; e presentato in una forma che combina dialoghi in italiano – trattandosi di uno singspiel, di importanza fondamentale – ed i numeri musicali in tedesco.
Il fatto poi il libretto di Schikaneder, nel suo voler porsi come un'irreale favola filosofica, sia drammaturgicamente gracile ed incoerente, in fondo poco importa. A contare sono le invenzioni del genio salisburghese che lo nobilitano, una fila di perle musicali una più meravigliosa dell'altra; andando in tal modo a costituire, con il Requiem e La clemenza di Tito, il suo testamento artistico.
“Le mille e una notte”, favole di genti lontane nel tempo
Dunque l'intera mise en scéne è posta nelle mani di Stefanutti, talentuoso creatore di uno spettacolo molto visto l'anno scorso - prima nel circuito OperaLombardia ed a dicembre al Verdi di Trieste - presentando via via interpreti diversi, come in queste recite veronesi. Un Flauto magico che nel suo insieme possiede indubbio fascino teatrale, assemblato e gestito nelle sue varie componenti con coerenza e maestria, trovando palese ispirazione nei mirabili racconti de Le mille e una notte.
Lo spettacolo proposto attinge quindi ad un universo immaginoso e fantastico, evocato non tanto dai sapienti giochi di luce impostati da Emanuele Agliati e dalle semplici ed leggiadre strutture scenografiche: una scena praticamente unica, racchiusa fra trasparenti quinte moresche ai lati, con una specie di voliera a far all'occorrenza da divisorio; quanto piuttosto dai variegati costumi dei tanti personaggi collocati in scena, che mescolano l'antico Egitto del libretto con i sūq d'Arabia, coloratissimi sari e le divinità dell'India con i danzatori thailandesi, divise tartare con la Cina dei mandarini. Dietro, si intuisce chiaramente l'apporto prezioso di Stefano Nicolao e del suo atelier sartoriale.
Mozart, le bacchette in mano alle donne
Un direttore donna a Trieste, un direttore donna sulle sponde dell'Adige. In questo caso la brava Gianna Fratta, pronta a gettare le basi d'una concertazione accurata e lucida, senza eccessivi scarti dinamici, concentrata sui dettagli strumentali, ricercando linearità ed equilibrio. Forse un po' troppo pudica, ci pare, e non sempre debitamente stimolante per i cantanti. L'Orchestra della Fondazione Arena la segue con nitore e spigliatezza, il Coro scaligero diretto da Roberto Gabbiani assolve il suo dovere con la necessaria levità.
Tamino e Papageno, due personaggi complementari
Al Tamino del bravo Matteo Mazzaro non mancano né voce bella e ben timbrata, né calore e slancio, né giusto temperamento drammatico. Il pavido Papageno di Michele Patti è un bell'esempio di musicalità corretta ed elegante, oltre che di vivida teatralità. La carezzevole Pamina di Gilda Fiume è intonata con bella morbidezza di velluto, e con fraseggio ovunque esemplare; un prodigio, invero, di buon canto all'italiana.
La profonda e nobile vocalità del basso Alexander Vinagradov conferisce densa corposità a Sarastro; la Papagena di Giulia Bolcato ci pare ineccepibile; il soprano polacco Anna Simińska è poco convincente, alla prese del funambolico registro della Regina della notte; Matteo Macchioni dà corpo, con voce ferma e colorita espressività, ad un simpatico Monostatos.
Tre dame azzurre, come il dio Shiva
Ben assortito e musicalmente adeguato il trio delle Dame truccate d'azzurro, costituito da Marianna Mappa, Francesca Maionchi e Marta Pluda. I due sacerdoti sono ben interpretati da Viktor Shevchenko e Gianluca Moro. L'Oratore lo fa Alberto Comes; i tre fanciulli hanno le voci dei piccoli Jacopo Lunardi, Lorenzo Pigozzo e Erika Zaha. Un agile gruppo di attori/mimi (Mauro Barbiero, Vittorio Bentivoglio, Michelangelo Brunelli, Luca Condello e Federico Vazzola) dà vita a piccoli e gustosi interventi.