Don Carlo di Giuseppe Verdi, che ha aperto la stagione 2023/24 del Teatro alla Scala, è il titolo che vanta il maggior numero di inaugurazioni di stagione del teatro milanese: ben 9 a partire dal 1868, con produzioni che, soprattutto a partire la metà del secolo scorso, ne hanno segnato la storia.
Eseguita la versione in 4 atti
L’opera, che in realtà nasce come Grand Opéra in francese con il titolo Don Carlos, è sicuramente la partitura più tormentata di Verdi, al punto che ne esistono almeno 4 versioni che diventano 5 se si considera la prima versione in francese cui, per questioni meramente tecniche, il compositore dovette apportare dei tagli prima ancora del debutto parigino.
Sta di fatto che il Don Carlos in francese, che si sta sempre più affermando sui palcoscenici internazionali, non è ancora stato rappresentato alla Scala ed anche in quest’occasione si è preferito optare per la versione in 4 atti che proprio alla Scala vide il suo debutto nel 1884 e che, rispetto alle edizioni in 5 atti, sposta l’attenzione dall’amore tra Don Carlo ed Elisabetta al contrasto tra potere politico e potere religioso.
Una grande esecuzione dal punto di vista musicale
Riccardo Chailly, che ha già affrontato in passato questa partitura, ne dà una lettura dai tratti cupi, a sottolineare l’atmosfera oppressiva della corte spagnola, ma estremamente viva e pulsante, ricca nelle dinamiche e sontuosa nel gioco di colori e screziature, in perfetto equilibrio con le voci, di cui racconta le vicende e con cui condivide le emozioni. Complice un’orchestra che suona magnificamente ed un coro, diretto da Alberto Malazzi, che, sebbene mortificato dalla regia, regala l’ennesima prestazione straordinaria.
Equilibrato con punte di eccellenza il cast che, passate le tensioni della prima, ha avuto modo di esprimersi al suo meglio.
Nel ruolo del titolo Francesco Meli delinea un Don Carlo eroico ed appassionato. Il timbro è sempre bello e luminoso ed il fraseggio è molto attento a sfumature e mezzevoci, tuttavia la tessitura dell’Infante di Spagna lo mette spesso in difficoltà nel registro acuto che viene spesso sollecitato e che suona sforzato. Subentrato a prove già iniziate Michele Pertusi si conferma un grande Filippo II. Il basso parmense delinea un re di Spagna dolente e introspettivo, dando una lezione di grande intelligenza interpretativa e cesellando un’”Ella giammai m’amò” intenso e toccante. Risalta per morbidezza nell’emissione, profondità nel fraseggio e scavo della parola anche il Posa di Luca Salsi, nonostante il personaggio del puro idealista sia meno nelle sue corde rispetto ad altre figure dai tratti più ombrosi.
Apprezzabile la prova di Jongmin Park che, causa il protrarsi dell’indisposizione del previsto Ain Anger si è trovato a dover affiancare al ruolo del Frate anche quello del Grande Inquisitore. Le vere meraviglie sono giunte però dal versante femminile. Anna Netrebko è un’Elisabetta energica e volitiva, magnetica sulla scena, che passa con stupefacente disinvoltura da un registro centrale pieno e corposo ad acuti svettanti e luminosi. L’interpretazione è da fuoriclasse grazie al gioco di colori e mezzevoci che al termine di “Tu che le vanità” scatenano un uragano di applausi. Uragano di applausi che segue anche un travolgente “O don fatale” cantato con dovizia di mezzi da una straordinaria Elina Garanča, Eboli dalla linea di canto d’acciaio, dagli acuti luminosi e duttilissima nell’interpretazione.
Tutti elementi che contribuiscono ad un’esecuzione musicale di grande livello, cui è mancato solo un aspetto per essere veramente memorabile: quella teatralità che scaturisce da una regia che agisca sulla musica. Infatti la teoria che molti propugnano secondo cui “la regia non deve disturbare la musica” è quanto di più sbagliato vi possa essere. L’opera è teatro in musica, pertanto, affinché lo spettacolo funzioni nella sua totalità, podio e palcoscenico devono interagire influenzandosi a vicenda, in modo che anche l’aspetto musicale ne guadagni in teatralità.
Regia non pervenuta
Purtroppo in questa produzione è mancata una vera e propria regia. Lluis Pasquàl si è limitato a far entrare e uscire i cantanti seguendo più o meno pedissequamente le didascalie del libretto e riportando indietro il calendario ad un modo di concepire il teatro d’opera basato su stereotipi risalenti ad oltre 50 anni fa. Nessun lavoro di scavo sui protagonisti, le cui interpretazioni sono state lasciate all’intuito del singolo interprete; nessun tentativo di gestione delle masse sceniche, perennemente immobili.
Non mancano poi scelte discutibili o quantomeno bizzarre quali ad esempio frati e dame di corte seduti per terra, stile déjeuneur sur l’herbe, prima dell’autodafé, oppure il grande inquisitore che, essendo cieco, esce dal colloquio con Filippo II accompagnato da un chierichetto, ma che in altri momenti non ha problemi ad arrampicarsi da solo su una scalinata alta almeno 6 metri.
È vero che il pubblico della Scala si è spesso mostrato refrattario a regie troppo innovative, inducendo la direzione artistica ad optare in favore di scelte più prudenti, ma tra il regietheater più estremo ed i tableaux vivants c’è un infinito ventaglio di soluzioni percorribili.
A ciò si aggiunge un allestimento estremamente cupo che raramente appaga lo sguardo: i costumi di Franca Squarciapino sono molto belli nel loro sfarzo e nella loro cura dal punto di vista filologico -anche se rimane l’interrogativo del perché il Grande Inquisitore che sarebbe un frate faccia il suo ingresso abbigliato da vescovo- ma tutti virati sul nero e sui colori scuri; le imponenti scene di Daniel Bianco, basate su un grosso cilindro centrale che, aprendosi e chiudendosi, caratterizza i vari ambienti, oltre a costringere l’azione a proscenio, al punto che a volte i protagonisti devono aggirare la buca del suggeritore, avrebbero potuto essere usate in maniera più creativa, mentre le luci crepuscolari di Pascal Mérat risultano alla lunga monotone. In sostanza un’impostazione che per lo spettacolo inaugurale di un teatro come la Scala suona un po’ di retroguardia.
Il pubblico, pienamente appagato dall’aspetto musicale al termine ha tributato applausi entusiasti a tutti gli interpreti.