Questo Don Carlo di Verdi, appena andato in scena al Teatro Comunale di Modena, è una delle più intriganti produzioni liriche di quest'anno. Se la godranno pure gli spettatori dei teatri di Piacenza, Reggio Emilia e Rimini - coproduttori dell'impegnativa impresa - che l'accoglieranno tra breve. Ma poiché la recita domenicale cui abbiamo avuto il privilegio di assistere è stata caricata sul portale Opera Streaming, sarà possibile a tutti godersela a casa propria.
Tra le varie possibili - dato che il complesso Don Carlos, il grand-opéra che dopo l'apparizione parigina del 1867 in cinque atti (e balletti di rito) venne rimaneggiato da Verdi in più guise - è stata adottata la versione in quattro atti presentata a Milano nel gennaio 1884. Partitura 'circolare', perché s'apre e chiude nel sepolcro di Carlo V, dalla pregevole compattezza drammatica. L'ultima versione, quella di Modena 1886 in cinque atti, il Comunale ce la propose per le celebrazioni verdiane di dieci anni fa.
Un cast di altissimo profilo
Cominciamo dal cast, un'adunata di stelle. Vi troneggia – è proprio il caso di dirlo – il Filippo II di Michele Pertusi. Non avrà tutto lo smalto d'un tempo, ma rimane interprete dalla vocalità possente, nella straordinaria autorevolezza del travagliato suo personaggio, ora superbo, ora sconfortato. Lo vediamo tornire ogni frase, attribuendo pieno significato ad ogni parola – vedi come pronuncia quasi in un soffio «O strano sognator...» - ed infondere nel canto i giusti colori, ammorbidendo e smorzando con nobile fraseggio. Per questo, la fosca meditazione di «Ella giammai m'amò» gli guadagna lunghe ovazioni.
Il Don Carlo di Piero Pretti appare ben centrato come parvenza d'infante infelice e tormentato; musicalmente, viene risolto con bella efficacia, in un procedere imperniato sullo squillo argenteo, sull'omogeneità della gamma, sulla nobile eloquenza, sull'impeto drammatico.
Due autentiche primedonne, e nobile Posa
Debutto encomiabile per Anna Pirozzi: dal lato vocale dona una sfarzosa Elisabetta, dall'accento nobile e incisivo, grazie ad un timbro vellutato, ed una pasta vocale corposa e di rarefatta bellezza; agile in alto, densa nei centri, ferma nelle discese quasi mezzosopranili. Dal lato sentimentale, rende al meglio una giovane regina dibattuta fra scoramento sentimentale, senso del dovere, orgoglio aristocratico.
Da parte sua, Teresa Romano replica il recente successo modenese in Fedora, lanciandosi in una Eboli di grande spicco scenico, in primis; ma in più disegnata con levigata e saldissima vocalità, densa nei suoni gravi, svettante negli ardui acuti; sempre ricca di mordente, di slancio passionale, di aristocratica fierezza, di concitato vigore. Generosi e ben meritati applausi ad entrambe.
Il Marchese di Posa, figura di grande spessore psicologico – il carattere impone di passare dalla soavità amicale all'imperiosità di avveduto politico - trova in Ernesto Petti un chiosatore adeguato. In un incedere misurato e nobile, l'ampia tessitura non gli causa problemi, modulandone adeguatamente ogni passo; quanto ad accenti, colori, trova la giusta chiave tanto nell'abbraccio con l'amico fraterno, quanto nel serrato confronto con Filippo e nell'accorata dipartita.
In una parte minore, quella del paggio Tebaldo, incontriamo una brava Michela Antonucci; vigoroso pure il Frate di Andrea Pellegrini, mentre Andrea Galli rende a dovere il Conte di Lerma e l'Araldo. Fin qui, tutto bene. Ma poiché il diavolo si cela nei dettagli, ecco Il grande inquisitore del basso georgiano Ramaz Chikviladze, voce dura e frigida, e dall'intonazione oscillante.
Chiari e scuri nella direzione, bene la regia
Sul podio il valenciano Jordi Bernàcer, che ha davanti l'Orchestra Toscanini. L'atmosfera cupa ed oppressiva che pervade l'opera – da cui si sottrae solo la scena del giardino – è resa correttamente, la concertazione procede nitida, molto attenta ai valori musicali, non manca né di vigore, né di brio, in un arco dinamico ampio e buona profusione di colori. Nondimeno a tratti un volume sonoro ridondante mortifica le voci, e certi eccessivi clangori degli ottoni guastano non poco l'insieme. Il Coro Lirico di Modena addestrato da Giovanni Farina dà buona prova di sé, ma qualche elemento in più nelle sue fila sarebbe cosa saggia.
Uno saggio recupero del passato
Lo spettacolo recupera ed offre quanto già proposto a Modena dieci anni fa, in un palese richiamo alla storica mise en scène (1965) di Luchino Visconti; un Don Carlo dal quale viene per esempio tolto di peso il monumentale sepolcro imperiale. Non a caso Joseph Franconi-Lee, suo curatore ora ed allora, curò la ripresa del lavoro viscontiano all'Opera di Roma nel 2004.
Ci sottopone comunque una regia interessante, che procede rapida e coerente, senza sbandamenti, inserendo qualche significativa controscena. E che risolve adeguatamente sia il complesso momento dei giardini reali sia la monumentale scena dell'autodafé, tenendo ben serrate le fila di una vicenda complicata, in cui si intrecciano tante cose: sentimenti di fraternità, quattro aneliti d'amore impossibili, grovigli politici, lotta alle eresie.
Alessandro Ciammarughi piazza in primo piano dei banali bancali di legno, assai brutti a vedersi; di contro, fa buon uso di suggestivi fondali architettonici. Suoi anche gli sfarzosi costumi, accuratamente realizzati dall'Atelier Nicolao. Calibrato il gioco di luci realizzato da Claudio Schimd.