A distanza di un secolo dalla sua prima rappresentazione e considerato tra i capolavori di Luigi Pirandello, Enrico IV torna in scena col volto di Sebastiano Lo Monaco. L’attore siciliano già autorevole interprete delle opere pirandelliane è diretto in questa occasione da Yannis Kokkos.
La produzione mette insieme uno dei maggiori autori del Novecento e l’esperienza di uno tra i più stimati registi contemporanei, che in questo caso ha curato anche la scenografia coadiuvato da Cleo Laigret.
Quando la pazzia è necessaria
Sul palco, diverse postazioni che portano sotto i riflettori i segreti e i mascheramenti che abitano i camerini degli attori, un enorme trono d’oro destinato ad accogliere il pazzo che si crede re, una sorta di baraccone degli specchi dove si trovano appese le effigi di Donna Matilde Spina mascherata da Matilde di Toscana (la brava Mariàngeles Torres) con il ritratto di Enrico VI di Franconia, in ottemperanza alle indicazioni di scena pirandelliane; fa la sua comparsa anche un grande televisore che proietta in bianco e nero alcune scene che anticipano o corredano la narrazione.
Sono i valletti/consiglieri a introdurre il pubblico al gioco della finzione ideato da Pirandello che asseconda la pazzia vera o presunta del protagonista insorta dopo la celebre caduta da cavallo, vissuta da lui e da chi lo circonda come un sogno lungo vent’anni.
L’intreccio del dramma dai risvolti tragicomici nella rilettura dello spettacolo diventa pretesto per ragionare soprattutto sul tema della follia, oltre che sul gioco ambiguo della finzione e sulla natura e la funzione dell’attore. Lo psichiatra che fa il suo ingresso "a corte" insieme al gruppetto che ha ideato il gioco delle parti capitanato da Matilde e Belcredi (interpretato da Claudio Mazzenga) è impotente di fronte agli eventi che dimostrano che in storie come questa la pazzia è necessaria.
Un omaggio a Pirandello sentito e credibile
La drammaturgia è sostanzialmente fedele all’originale, Kokkos con una regia attenta e armonica, che fa emergere l’impronta corale dell’opera, ha deciso insieme all’aiuto regista Stephan Grögler di allestire il dramma mettendo in luce il rapporto di Pirandello con la psicologia, sottolineando l’influenza sull’autore degli studi di freudiani e della successiva scuola di Francoforte.
Commovente il monologo di Lo Monaco, che nel finale, smessi ormai i panni di Enrico IV, si chiede se essere o non essere pazzo e quindi con un moto di carità verso se stesso li riveste: un Amleto disilluso e invecchiato.
Appeso sul fondale, appare nel secondo atto il faccione della luna, che come nella celebre novella dello scrittore siciliano va a governare con il suo chiarore tenero e carico di ambiguità l'esperienza del tutto irrazionale ma profondamente umana messa in scena. Pirandello torna sul palcoscenico non proprio vestito a nuovo, ma con un omaggio sentito e credibile.