Voto? Un fellinano otto e mezzo per il Fantozzi firmato Gianni Fantoni e Davide Livermore, alla Prima assoluta a Genova. Ma lo spettacolo è un colpo di genio teatrale destinato a fare epoca, una provocazione-boiata-pazzesca, oppure tutte e due le cose insieme?
E’ un azzardo volutamente iperbolico e paradossale messo in campo per épater les bourgeois e fare discutere? (fare casino nel mondo del palcoscenico, insomma). O è sincera la ricerca di una poetica nuova eppure sempre uguale e connaturata all’animo umano, che negli anni ‘70 del 900 aveva assunto i panni della Maschera Fantozzi e oggi chissà?
Il voto avrebbe potuto essere ancora più alto se non fosse stato per alcuni dettagli che possono essere cambiati eventualmente in futuro: tipo i fari alogeni della Bianchina che accecano realmente e fisicamente gli spettatori fino a metà sala, costringendoli a distogliere l’attenzione dal palcoscenico; certi pistolotti didascalici sparsi qua e là, soprattutto nel finale, che sembrano fuori luogo; o la lunghezza del testo.
Sarebbe stato meglio se lo spettacolo fosse durato un po’ meno: diciamo almeno una mezz’ora. Qui invece abbiamo due tempi da 70 minuti ciascuno, più intervallo. Durata a parte, l’interprete e il regista con il loro Fantozzi. Una Tragedia hanno centrato in pieno l’obiettivo di superficie: fare ridere. C'è gente con gli occhi lucidi per le risate.
L’attesa per le battute straconosciute dei film, viene ripagata: ci sono tutte.
Due ore e mezza di teatro onirico felliniano
La frase “un felliniano otto e mezzo” non è solo un calembour piuttosto scontato per assegnare un voto alto: è proprio la cifra interpretativa dello spettacolo. Livermore dà vita a due ore e mezza di teatro onirico felliniano, simbolico e metaforico: sospeso tra l’immaginario collettivo, i ricordi di tutti noi, la magia del sogno individuale e condiviso, la metafora dell’esistenza e il racconto sociale.
Gianni Fantoni – fondamentale per la buona riuscita dell’operazione - ci mette del suo riportando fisicamente in vita il corpo e lo spirito di Paolo Villaggio. Lui non imita il Ragioniere per antonomasia: lui è Fantozzi. In questo sogno mitologico pieno di Maschere e tipi umani universali e trasversali messo in scena dal TNG, il corpaccione in mutande ascellari del protagonista fa diventare verosimile l’inverosimile, trasforma il particolare in universale, rende l’esistenza di uno paradigmatica dell’esistenza di tutti: tragedie quotidiane comprese.
Livermore cancella la scenografia e punta sull'incorporeità del sogno
Livermore sembra essersi detto: “Deve essere sogno? E sogno sia!”. Il regista dei mega allestimenti nei teatri lirici, quello con la locomotiva in scala 1:1 sul palcoscenico, stavolta spiazza tutti: la scenografia, semplicemente, non c’è. Come in un sogno (appunto) il nulla può significare tutto.
C’è una pedana leggermente inclinata che cambia forma, colore e significato in base ai tagli di luce colorata che si aprono e mutano all’improvviso, piovendo dall’alto o dai lati, evocando cose diverse in base al ricordo, all’emozione, alla sensazione e alla suggestione del momento. La luce cambia la narrazione anche sulle pareti e sullo sfondo.
Sul retro si apre e chiude una finestra, da cui si intravede una specie di banco di regia attorno al quale ci sono degli attori che interagiscono con i colleghi sul palco, prima di entrare a loro volta in scena. Da lì fanno i rumoristi, commentano, raccontano, sottolineano, intervengono al microfono. Una volta scendono quattro lampadari dal soffitto, e stop: fine degli oggetti scenici. Per inciso era il Ballo della Contessa Serbelloni Mazzanti VienDalMare.
Maschere, sotto-maschere, idee geniali e provocazioni
Sul palcoscenico con Fantoni ci sono Paolo Cresta, Cristiano Dessì, Lorenzo Fontana (la signorina Silvani), Rossana Gay, Marcello Gravina, Simonetta Guarino, Ludovica Iannetti, Valentina Virando: tutti perfetti nei doppi e tripli ruoli chiamati a interpretare, tutti sotto-Maschere della Maschera principale Fantozzi.
Geniale l’idea di far parlare il cane Ivan il Terribile 32° in genovese, con traduzione simultanea. In questo spettacolo il teatro fa la caricatura di sé stesso: anche troppo. La famosa quarta parete non c’è proprio. Durante queste due ore e mezza lo spettacolo parla spesso in prima persona, rivolgendosi (come se fosse un’entità viva e ragionante) direttamente allo spettatore, e ricordando di essere teatro e non realtà.
E soprattutto non cinema! Fantozzi/Fantoni ribadisce più volte che ciò che sta facendo in scena non è una scopiazzatura dei film, ma un’interpretazione teatrale dei primi tre libri di Villaggio su Fantozzi. Ma si era capito già alla prima volta.
Fantoni e Livermore prevengono la domanda fatidica: che ne sanno i giovani d’oggi dell’immaginario collettivo e dei riferimenti storici e sociali del mondo di Fantozzi negli anni 70? Detto fatto. Simonetta Guarino smette i panni del cagnaccio giustiziato sulla Piazza Rossa come “nemico del popolo” e diventa una wikipedia vivente, un ipertesto collaterale alla narrazione che ti spiega ciò che era pane quotidiano per quelli della Generazione Silenziosa e i Baby Boomers. A questo punto il messaggio datato diventa attuale, e il gioco è fatto.
La partita di biliardo diventa cosa viva
Non è facile però stare dietro al turbinio vorticoso di parole richieste dalla parte: forse servirebbe qualche taglio. Come tutti i Fantofili sanno, l’unico momento di riscatto per il ragioniere è il “Triplo filotto Reale ritornato con pallino”. La luce verde trasforma il pavimento in un panno, e gli attori con la testa a pallina numerata sono le bocce, mentre dall’alto i rumoristi inventano a voce il pathos della partita: geniale anche questa.
Nel teatro, l’immagine e la convenzione diventano realtà. E che dire della Bianchina, un’attrice in carne ossa vestita di bianco che ragiona sulle vicende in corso? Alcuni momenti di riflessione e ripiegamento sembrano calati a forza nell’intreccio, per dare spessore psicologico e sociologico al lavoro più che per necessità di narrazione: ma vengono presto spazzati via dall’incalzare delle battute successive, che impediscono anche la comprensione piena del messaggio.
Una chiusura in bruttezza
Livermore ha disegnato il quadro di una tragedia greca con prologo, quattro episodi ed esodo finale. Ma proprio l’esodo è uno dei punti deboli, anche perché giunge quando il pubblico è ormai stanco: diciamo una chiusura in bruttezza. Livermore non è il tipo di sprovveduto che ignora il meccanismo di azione-reazione a teatro, quindi l’ha fatto apposta: resta da capire il perché.
Nel finale Fantozzi arringa gli spettatori, ricordando che il ragioniere aveva il posto fisso e una sicurezza economica che oggi i giovani non hanno: ma lo aveva già detto prima, e il troppo stroppia. E dire che sarebbe bastata la scena. Un cimitero buio, nebbioso, in un futuro chissà quando. Le tombe di Fantozzi, della Pina e degli altri sventurati vilipesi dalla vita, sono davanti. Quella del Megadirettoregalattico e della Contessa sono nascoste dietro. Sic transit Gloria Mundi e Gli Ultimi Saranno Primi. Bastava questo per disegnare l’ultimo sberleffo di Paolo Villaggio dall’Oltretomba.