Originariamente programmata per la primavera 2020 ma rimandata a causa della pandemia, ha debuttato al Teatro alla Scala la nuova produzione di Fedora di Umberto Giordano nell’allestimento firmato da Mario Martone con la direzione di Marco Armiliato.
Ambientazione moderna ispirata a Magritte
Ambientata alla fine del XIX secolo Fedora è una storia d’amore con risvolti noir. L’opera infatti si apre con l’assassinio del conte Vladimir che fa subito pensare ad un delitto di natura politica perpetrato dal gruppo dei nichilisti ed i sospetti cadono sul giovane Loris, che per tutta l’opera si trova pedinato da spie, fino a quando non confesserà che si è trattato di un omicidio passionale e che lui nulla aveva a che fare con i sovversivi.
Influenzato da questa atmosfera, prendendo spunto dal quadro di René Magritte L’assassino minacciato, Martone sposta la vicenda in epoca contemporanea, citando nelle scenografie di Margherita Palli e nei costumi di Ursula Patzak alcune opere del pittore belga.
L’idea funziona ma solo in parte: se infatti nel primo atto la scelta di bloccare i personaggi, riducendo i movimenti al minimo durante il lungo interrogatorio, crea una sensazione di tensione e claustrofobia estremamente suggestiva che rimanda ad un film noir anni ‘50, già nel secondo si intravedono i limiti di quest’impostazione, a partire dal ricevimento che, nella sua stilizzazione, risulta imbalsamato.
Poco aggiungono nel prosieguo anche i ripetuti riferimenti ai quadri di Magritte, tra cui amanti velati e spie in bombetta nera che aprono e chiudono ombrelli, che rimangono tra il didascalico ed il decorativo, non entrando mai veramente in relazione con quanto avviene sulla scena.
In sostanza un allestimento visivamente curato – la scenografia degli ultimi due atti è praticamente una riproduzione fedele rispettivamente de L’impero delle luci e L’assassino minacciato- che però nella sua stilizzazione tende a raffreddare le passioni che emergono dalla partitura.
Più efficace l’aspetto musicale
Passioni che fortunatamente scaturiscono dal golfo mistico grazie all’ispirata concertazione di Marco Armiliato che coglie perfettamente la natura decadente dell’opera, pressoché ignorata dalla regia, attingendo ad una tavolozza cromatica ricca e sfumata e mantenendo sempre saldo il filo della narrazione.
Nel ruolo del titolo Sonya Yoncheva dà l’impressione che la parte le stia un po’ larga a causa della tessitura che spesso scende nel registro mezzosopranile. Se infatti il soprano bulgaro, oltre ad una notevole presenza scenica, può contare su un timbro rigoglioso soprattutto nell’acuto -molto ben eseguita l’aria d’esordio “O grandi occhi lucenti di fede”- le note gravi risultano sforzate e artificiali con il risultato di appiattire spesso il fraseggio e l’interpretazione.
GLI SPETTACOLI
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Al suo fianco Roberto Alagna conferma un ottimo stato di forma vocale. Il timbro non ha più quello squillo eroico che il ruolo richiederebbe e l’interpretazione a volte appare troppo esteriorizzata, tuttavia il suo ritorno alla Scala dopo 16 anni di assenza è stato salutato da applausi convinti. George Petean è un De Sirex misurato ed elegante, che forse si sarebbe voluto più incisivo, mentre Serena Gamberoni spicca per il timbro luminoso e per la contagiosa vitalità che infonde alla contessa Olga.
Nel complesso efficaci le prove dei comprimari e del coro diretto da Alberto Malazzi che in quest’opera può contare solo su una fugace apparizione. Al termine buon successo di pubblico da parte di un teatro quasi esaurito.