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FINALE DI PARTITA

Finale di Partita: climax ascendente e fedeltà all’autore

Finale di partita
Finale di partita

La messa in scena di Andrea Baracco vuole concentrare l’attenzione e l’energia emozionale sul personaggio di Hamm, interpretato da Glauco Mauri, che diventa qui il ritratto della solitudine, del vuoto, della fragilità.

Finale di Partita è una pièce teatrale scritta da Samuel Beckett, pubblicata e rappresentata per la prima volta nel 1957. Il drammaturgo irlandese uno dei continuatori del Teatro dell’Assurdo dopo il padre fondatore Alfred Jarry, ha scritto testi usando un linguaggio innovativo, dove i dialoghi non hanno come fine la comunicazione tra i personaggi, dove i titoli racchiudono il senso di uno scopo inesistente, dove l’astrattezza ontologica diventa il centro di una scrittura drammaturgica senza storia.

Una non-storia in un microcosmo post-atomico

Il tic tac di un orologio echeggia nella sala per tutta la prima parte dello spettacolo: “Finita, è finita, sta per finire. Sta forse per finire” afferma Clov. In realtà non c’è ora, non c’è tempo, non c’è un tempo metereologico, non c’è un inizio, non c’è una fine.
Hamm (Glauco Mauri) e Clov (Roberti Sturno) con (non)vivono in un microcosmo risucchiante: una stanza dalle pareti spoglie il cui scheletro è scandito dalle linee di movimento di Clov nello spazio e da un punto immobile centrale, la posizione di Hamm nello spazio, cieco e seduto su una sedia. Superstiti dopo la seconda guerra mondiale o forse già morti – tutta la casa puzza di cadavere – attendono la fine di una partita che giocano da tempo (quanto tempo?) dove la fine è metonimia dell’annientamento delle emozioni e del senso e la partita è una vita mai vissuta, ma intrappolata nell’insensatezza di una routine di domande dalle risposte ovvie.

I personaggi di Beckett non hanno una storia, non raccontano una storia: si riducono a casse di risonanza che emettono suoni. Hamm infatti dice: “Io non ci sono mai stato. Io non so cosa sia successo”. Hamm chiama il suo servo Clov con un fischietto, Clov risponde ma non ha un ruolo. Hamm dovrebbe prendere il suo calmante, ma non è mai l’ora del suo calmante. Clov dovrebbe guardare cosa c’è fuori dalla finestra, ma fuori non c’è niente.
Nell e Nagg genitori in fin di vita e seppelliti all’interno di bidoni della spazzatura in Beckett e qui rinchiusi dentro delle gabbie per bestie, sopravvivono ricoperti di pulci e mangiando biscotti duri. Tutte le dramatis personae di questa pièce sono imprigionate in uno stato di immobilità fisica, eccetto che Clov: intrappolato in uno stato di movimento alogico: per guardare il nulla fuori dalle due finestre posizionate su pareti opposte, deve salire su una scala. Ogni qualvolta che dovrà guardare dalla finestra opposta, dimenticherà di prendere la scala e dovrà tornare indietro.
L’indifferenza regna come protagonista indiscussa: alla morte non c’è reazione, la pietà non esiste, Nell prova a piangere ma non ci riesce. Solo l’infelicità provoca una “emozione”, è comica. E’ comica ma non fa più ridere.

La messa in scena del Nulla: un’impresa impossibile? No.

La messa in scena di Andrea Baracco che parte dell’assoluta fedeltà al testo e alle note di regia beckettiane, sembra in realtà voler concentrare l’attenzione dell’energia emozionale sul personaggio di Hamm, che diventa qui il ritratto della solitudine, del vuoto, della fragilità fisica e della resistenza interiore. La recitazione di Glauco Mauri conduce lo spettatore sulla via della commozione e della pietà. Il lavoro è interessante in quanto apre i battenti in modo distaccato e robotico, per poi procedere con un climax coinvolgente - dal greco Klìmax : scala, quella scala di Clov da cui Hamm avrebbe voluto vedere l’orizzonte - che riesce a estrapolare il senso di quel non-senso beckettiano mai volutamente cercato dal drammaturgo.

Andrea Baracco ricostruisce in modo magistrale il senso di vuoto per sottrazione, servendosi del testo di Beckett e sposandosi perfettamente con la recitazione autentica degli attori, che evidenzia il peso delle parole dei testi di Beckett, rendendoli da impassibili a personali e personalizzati, trascinando lo spettatore in un processo di immedisamazione graduale e inaspettato. Il vuoto ben rappresentato anche dalle scenografie di Marta Crisolini Malatesta (pareti spoglie e colori sbiaditi) e avvolte dalle atmosfere malinconiche delle musiche di Giacomo Vezzani, è ciò che resta alla fine dello spettacolo. Hamm resta attaccato a un cane di pezza e infine a un vecchio straccio. Lo spettacolo si chiude così in modo circolare, dando la risposta alla domanda: “Tu hai mai avuto un momento di felicità? Risposta: Che io sappia no.” La felicità resterà solo un significante, senza significato.

Visto il 31-10-2018