Niente significati nascosti in questa versione di Fronte del Porto, messa in scena da Alessandro Gassmann in veste di regista e non di attore. A fare la differenza, quindi, sono proprio la qualità della recitazione e della regia. Gassmann si è ispirato al film di Elia Kazan con Marlon Brando che nel 1954 vinse otto Oscar, ma non si è limitato a copiarlo: ha chiesto a Enrico Iannello di tradurre la sceneggiatura originale di Budd Schulberg e di curare l’adattamento su questa base.
Gassman e Iannello hanno ambientato la vicenda nel porto di Napoli degli anni 80: facendo recitare gli attori in un dialetto che a tratti risulta di difficile comprensione. L’operazione è riuscita e questo dramma in due atti, lungo più di due ore, appare plausibile, convincente e coinvolgente. La mano di Alessandro Gassman, più cinematografica che teatrale, si manifesta in mille modi.
Ci sono proiezioni di immagini in movimento sullo schermo trasparente che separa il palcoscenico dalla sala: i filmati creano una sorta di realtà aumentata in diretta, senza post-produzione; poi ci sono i passaggi da una scena all’altra; il movimento delle scenografie, che vengono spostate per ricreare i diversi ambienti; i personaggi che spesso danno le spalle al pubblico. E che dire di quei fari che illuminano nel finale gli attori, indicando il nome e il ruolo proprio come nei titoli di coda al cinema?
Una sopraffazione che si basa sulla paura
In Fronte del Porto va in scena l’eterna storia della violenza e della sopraffazione, dove il povero è tiranneggiato e sfruttato anche da chi dovrebbe difenderlo (il sindacato dei portuali). Il capo del sindacato napoletano e i suoi scagnozzi si comportano più da camorristi che da sindacalisti corrotti: anche perché la differenza appare inesistente, e i metodi di gestione del potere sono identici.
I poveri, i lavoratori, sono tra l’incudine e il martello: da una parte la voglia di ribellarsi ai soprusi, alle violenze; dall’altra la paura di pagare con la morte il desiderio di una vita migliore. I sindacalisti/camorristi non sono cattivi a priori: sono però consapevoli dei meccanismi su cui si basa il loro potere, e li applicano. E quando qualcuno li sfida (il prete, il pugile, due portuali ribelli) non deflettono: portano avanti la sfida anche di fronte alla concreta possibilità di essere sconfitti.
Una frase che spiega tutto
C’è un passaggio illuminante della loro psicologia in una frase del capobanda al suo braccio destro: “Non ti sto dicendo che ti deve piacere. Ma lo devi fare anche se ti fa soffrire farlo”. Il sistema di potere che si perpetua anche sulla pelle di chi in teoria ha le leve del comando, appunto.
Tutti bravi gli attori, ciascuno nella caratterizzazione del personaggio che interpreta. I personaggi diventano standard di riferimento, diversi tipi umani che potrebbero funzionare anche in altri luoghi, epoche, lingue.
Una spanna su tutti il protagonista Daniele Russo, nel ruolo che fu di Marlon Brando: gigante buono timido e impacciato, che sa solo fare a pugni ma non vuole fare male a nessuno fuori dal ring. Infantile nelle sue cantilene sofferenti quando è dilaniato tra gli affetti familiari, il dovere di obbedienza al clan, una ancora confusa sensazione che la giustizia è un’altra cosa, il desiderio di riscatto personale e sociale, l’amore per una ragazza.
Il pessimismo che fa da filo conduttore a tanto teatro napoletano, qui non c’è. C’è invece un lieto fine, anche se sofferente: figlio evidentemente della ottimistica visione americana alla base del soggetto di Schulberg.