Giro di vite, per inaugurare con lo stesso spettacolo la stagione di prosa e quella lirica a Genova. Giro di vite: ovvero “Metti il diavolo in palcoscenico”. Il diavolo vero, intendiamo: quello che si nasconde, che cerca di irretire le anime innocenti, e per coprire le sue azioni maligne proietta un’aura di candore e santità sulle vittime stesse. Finché un salvatore si accorge delle macchinazioni, interviene a suo rischio e pericolo, mette in salvo le vittime predestinate e sconfigge il Male.
Pathos non pervenuto
Un quadro del genere dovrebbe presupporre una certa quantità di pathos, terrore e tensione psicologica: ma in questo adattamento di Carlo Sciaccaluga del racconto di Henry James non li abbiamo visti.
Evidentemente non tutti sono stati di questo avviso, visto che alla fine del primo tempo – quello in prosa – gli applausi sono stati convinti e copiosi. Gli attori, compresi quelli giovanissimi, si sono impegnati molto e sono stati tecnicamente quasi perfetti: nella scelta ed esecuzione dei tempi, nella gestualità, nella mimica facciale. Ma sono stati – diciamo così – poco empatici. Il terrore e l’inquietudine, se c’erano, sono rimasti dentro di loro. E a coprire il gap non è bastata la dizione esasperata: che, probabilmente, è fatta apposta per essere sgradevole e disagiante.
Scenografia perfetta, inquietante, disarmonica
Per il resto la macchina voluta dal regista Davide Livermore è stata perfetta: con ogni cosa al suo posto e con il suo significato. Lo scenografo Manuel Zuriaga ha saputo interpretare benissimo gli input del regista. Massiccio uso del bianco e nero, probabilmente per simboleggiare la lotta tra bene e male. Altrettanto massiccio uso di linee rette, spezzate, angoli, a richiamare situazioni claustrofobiche, rigide, “cattive”.
Pochissime le linee tonde ed armoniche: la poltrona, qualche oggetto di scena, la lampada da cui scaturisce la luce portatrice di bene (in opposizione al buio dominante in molte scene). E così abbiamo un’immagine di contrapposizione e disarmonia: anzi, evoca proprio l’idea che un’armonia non è possibile.
Il racconto originario si svolge a cavallo tra 800 e 900. Qui la regia ha scelto di ambientarlo probabilmente tra gli anni 50 e 60 del Novecento, come dimostrano costumi e arredi: in particolare un televisore in bianco e nero, in cui si vedono solo le scariche e da cui proviene una voce inquietante (il prologo).
Le ombre incombono su di noi
Quando ci sono, le luci sono forti, per lo più con tagli laterali a disegnare una scena asimmetrica e contrastata. Luci di questo tipo proiettano sui muri l’elemento fondamentale di questa scenografia: le ombre. Sono ombre nere, gigantesche, nette, definite, molto più grandi delle persone che rappresentano: dicono che il Male è grande, molto grande, incombe su di noi e allo stesso tempo fa parte di noi.
L’ombra dice che il bianco non esiste senza il nero, e che l’aspetto scuro e demoniaco della personalità umana è dominante. Gli attori sono microfonati, e a noi piace di più quando non lo sono: ma nonostante questo spesso le musiche di contorno e gli effetti speciali coprono la voce, rendendo difficile seguire il testo. Il suono arriva da tutte le parti: davanti, dietro, di lato, a creare un effetto da cinema surround. Come quello delle sale dove vengono rappresentati i film horror.
Il demonio in mezzo agli spettatori
L’intendimento probabilmente è quello di portare in mezzo agli spettatori il demonio che è sul palcoscenico. I due bambini sono il diavolo? Sono le sue vittime? In base a quello che si vede in scena sembrano di più i complici: ma questo smonta parecchio la tensione. Se è così, infatti, significa che i due bambini sono già passati al Male quando arriva la nuova istitutrice.
Ci sono due fantasmi che tornano nella casa dopo essere passati dall’inferno: lei vuole la bambina, lui il bambino. Poi si capisce che in realtà i due bambini hanno già iniziato ad essere posseduti dai due morti, che agiscono per conto del diavolo.
Un horror come questo può essere confezionato in due modi. O fai un loop, un vortice ripetitivo che ti prende e ti risucchia sempre più a fondo nell’incubo; o fai un avanti e indietro schizofrenico, come un pendolo in linea retta: e ogni volta sei un passo più vicino al Male. Qui è stata scelta la seconda strada.
Colonna sonora: non è piaciuta a molti la scelta di Giua di utilizzare un brano dei Genesis distorto e rarefatto. A molti di quelli che sapevano di cosa si trattava (e cioè di uno dei brani più importanti della band-cult) è sembrata una forzatura inadatta, inopportuna e decontestualizzata: ma de gustibus non est disputandum.
Più efficace l'opera lirica
Molto più convincente il secondo tempo, quello in lirica, sempre con la regia di Livermore. I soprattitoli tipici della lirica aiutano lo spettatore a non perdersi nella narrazione. D’altronde lo spettacolo di prosa era al debutto e forse andrà registrato un po’, mentre l’opera di Benjamin Britten è uno spettacolo già rodato.
Scenografia più luminosa rispetto alla prosa, ma per il resto quasi identica. Però qui è ancora più di effetto la scena in cui il salotto con i suoi protagonisti all’interno appare ruotato prima di 90 gradi e poi di 180. Una trovata geniale di Livermore e Zuriaga per mostrare la relatività del bene e del male, delle nostre convinzioni e percezioni: anche al suo contrario, il mondo funziona perfettamente e nessuno se ne accorge. Ma questo forse delegittima un po’ la missione del Bene contro il Male. Perfetta come sempre la direzione di Riccardo Minasi.
Ottima la governante, il soprano Karen Gardeazabal. Ma anche tutti gli altri. A cominciare dai due pseudobambini che però sono fratelli veri: Olivier Barlow (voce bianca) e Lucy Barlow (soprano).